Archivi del mese: novembre 2017

If Hendrix Was 75

Naturalmente non è detto che, fosse sopravvissuto all’overdose di barbiturici che lo stroncava la fatidica mattina del 18 settembre 1970, Jimi Hendrix sarebbe oggi ancora vivo e potrebbe dunque festeggiare il settantacinquesimo compleanno. Magari avrebbe però pubblicato molti altri album oltre agli appena quattro dati alle stampe in vita. In tal caso, però, questi altri quattro qui (minuscola frazione di una discografia post mortem che conta decine di titoli) difficilmente li avremmo ascoltati.

Blues (MCA, 1994)

Non c’è niente da fare: la critica è bianca e quando scrive di Hendrix bolla la tensione al funky dell’ultimo anno come indizio di decadenza e ne sottovaluta le radici blues, quando fu quella la scuola cui si formò e non solo a livello di tecnica, appresa sui dischi di Muddy Waters e B.B. King, Jimmy Reed e Howlin’ Wolf, ma persino di trucchi di scena: quel suonare con i denti o lo strumento dietro alla testa, invece che fra le gambe con lampante simbolismo fallico, pantomime già inscenate da Charlie Patton e T-Bone Walker, Guitar Shorty e Guitar Slim. “Blues” è un efficace memorandum riguardo a tutto ciò, con un Hendrix sempre inconfondibile e nondimeno molto e significativamente rispettoso. Come in una Born Under A Bad Sign, da Albert King, appena indurita o in una Bleeding Heart, già di Elmore James, dal classicismo elettrico a dir poco pronunciato. Come in diverse e apprezzabili composizioni autografe “in stile”.

Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.21, primavera 2006.

South Saturn Delta (MCA, 1997)

“Abbiamo molto altro in serbo per i prossimi anni”, annuncia Janie Hendrix, e non si sa se intenderla come una promessa o una minaccia. Pensando a quante volte il defunto chitarrista è stato assassinato nei suoi dischi postumi, c’è da fare gli scongiuri. Tuttavia, siccome l’opera di riordino degli archivi del genio di Seattle intrapresa dalla sua famiglia e dal produttore Eddie Kramer è partita con il piede giusto, con lo stupefacente “First Rays Of The New Rising Sun”, si può per ora, sperando di non dovere cambiare idea, rallegrarsi di tali dichiarazioni, ma moderatamente: il fatto è che per quanto Hendrix fosse uno stakanovista della sala d’incisione la sua vicenda artistica si dipanò in un arco di tempo limitato, quattro anni appena, e non vi è dunque da illudersi di scovare chissà quali tesori. Tolti i nastri dal vivo, quanto resta di pubblicabile seguendo i criteri filologici che hanno ispirato “First Rays”? Non molto che sia all’altezza del mito, probabilmente, e tanto è già stato radunato in questo “South Saturn Delta”.

È una sorta di “Odds & Sods” hendrixiano, a base di lati B, appunti per successive realizzazioni, versioni differenti di canzoni già note, brani rifiniti con estrema cura e alla fine accantonati, ma con l’idea che sarebbero potuti tornare buoni. È un Hendrix che si concede al blues (Here He Comes, Bleeding Heart, Midnight Lightning), si arrende al funky (Power Of Soul), spazia nel jazz (South Saturn Delta). Minore, indubbiamente. Però ancora essenziale.

Pubblicato per la prima volta su “Rumore”, n.69, ottobre 1997.

Live At The Fillmore East (MCA, 1999)

Dopo la di lui morte il diluvio: di album indecorosi. Per colpa dei quali – oltre che in ragione di un certo razzismo strisciante nella critica rock e del discutibile missaggio di “Band Of Gypsys”, ultimo LP a uscire con il chitarrista in vita – per un buon quarto di secolo si è guardato all’ultimo Jimi Hendrix come a un Hendrix “minore”, poco convincente nel suo volgersi al funky. Ha fatto giustizia di questo stereotipo il filologico e amoroso programma di riordino del catalogo hendrixiano messo in cantiere un anno e mezzo fa, con il formidabile “First Rays Of The New Rising Sun”, dalla famiglia dell’artista di Seattle. A quel disco sono andati dietro il quasi altrettanto notevole “South Saturn Delta” e la raccolta completa delle “BBC Sessions”. È adesso il turno di questo live al Fillmore East, edizione infine impeccabile sotto il profilo tecnico (non è questione di purismo hi-fi: è che qui Hendrix suona come Hendrix) e molto ampliata (sedici brani contro sei) proprio di “Band Of Gypsys”. Tutto un altro album ora e per niente minore.

A partire da una Machine Gun (due versioni) lacerata e lacerante, che rende la tragedia del Vietnam come a nessun’altra canzone è riuscito. Da una Voodoo Child impressionantemente densa. Dal proto-crossover di Changes. Dal funky-jazz bollente di Burning Desire. Da dove volete voi, persino da quella (in fondo superflua) Auld Lang Syne che apre il secondo CD e ci trasporta alla mezzanotte che separò il 1969 dal 1970. Che il decennio che nasceva sia stato subito privato di questo genio è una tragedia della quale non si potrà mai misurare la portata.

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.12, maggio 1999.

Miami Pop Festival (Sony Legacy, 2013)

Arriverà prima o poi un giorno in cui la vena aurifera apparentemente infinita della miniera hendrixiana non produrrà più nulla? Forse non nell’arco delle nostre di vite. Forse all’altezza delle celebrazioni per il cinquantennale della morte (se non per il centenario della nascita) dell’uomo di Seattle ancora chi ci sarà potrà stupirsi per un frammento di studio inedito o all’incirca e comunque degno di esegesi o, più probabilmente, per un’esibizione dal vivo da aggiungere al lunghissimo elenco di quelle già recuperate. Il solo 2013 ha visto due articoli maggiori andare a ingrossare lo smisurato catalogo, in marzo la collezione di performance in studio “People, Hell And Angels”, a inizio novembre questo “Miami Pop Festival”, catturato live il 18 maggio ’68 e naturalmente già plurimamente bootlegato. Tutta un’altra cosa e un altro sentire però l’edizione ufficiale, produzione firmata da Eddie Kramer e i cultori sanno bene come il nome rappresenti una garanzia assoluta in fatto di qualità audio. Ciò detto: anche un grande concerto? Assolutamente sì, benché da colui che reinventò la chitarra nel rock se ne siano ascoltati di più ispirati ed eccitanti.

Abita questi solchi un Hendrix un filo meno incendiario del solito, più rilassato, tanto alle prese con materiali tratti da “Are You Experienced?” (nulla sorprendentemente veniva presentato quel giorno dal più recente “Axis: Bold As Love”) che con due brani, Tax Free e Hear My Train A Comin, alla prima esecuzione pubblica. È sbobba per completisti, va da sé, ma c’è da scommettere che per qualcuno di coloro per i quali questo dovesse risultare il primo Hendrix l’incontro sarà epifanico.

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.188, gennaio 2014.

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Il jazz più che free di Albert Ayler

Il 25 novembre 1970 il corpo di Albert Ayler, a tal punto malridotto dalla lunga permanenza in acqua da essere a malapena riconoscibile, veniva ripescato nell’East River, a New York. Erano trascorsi venti giorni dacché era stato visto vivo da qualcuno per l’ultima volta. A seguire, una piccola rassegna di mie recensioni di album – due dal vivo (in origine tre) e due in studio – di uno dei sassofonisti più grandi e originali della storia del jazz.

Prophecy

Formidabile quell’anno, il 1964, per Albert Ayler, che il 14 gennaio si sposava, il 24 febbraio registrava contestualmente il suo ultimo album di standard (il meraviglioso e sottovalutatissimo “Swing Low Sweet Spiritual”, aka “Goin’ Home”) e il primo di composizioni autografe (“Spirits”), il 14 giugno incideva dal vivo, al newyorkese Cellar Cafe, questo “Prophecy” e il 10 luglio tornava in studio, con gli stessi accompagnatori, sul medesimo materiale, nella seduta che frutterà il 33 giri d’esordio su ESP e secondo in assoluto dopo “My Name Is” dell’anno prima, “Spiritual Unity”. Dal che avrete dedotto che il 1964 del nostro eroe fu sì formidabile ma che il mondo non era ancora pronto per lui, né mai lo sarà nella sua vita troppo breve e dal finale tragico. Tant’è che di cinque LP (contando la colonna sonora improvvisata sul momento “New York Eye And Ear Control”) registrati, solamente due vedevano la luce allora. Troppo ardite le traiettorie tracciate dal suo sax sulla sghemba ritmica di Gary Peacock e Sunny Murray perché persino un uomo dalle ampissime vedute come Bernard Stollman, che aveva fondato la ESP dopo avere assistito a un concerto del nostro uomo, si azzardasse a seguirle sempre e comunque. Lo stesso Ayler – non solo i tanti denigratori – rifiuterà più avanti di chiamare “jazz” le sue schizoidi creazioni. Aveva ragione? Discuterne sarebbe un esercizio di sofismo: è semplicemente musica immortale.

Ghosts, che tante altre volte tornerà, debutta qui in due versioni, attorniata da Spirits, Wizard, Prophecy. Felici sarabande d’animo popolaresco e indicibile lirismo sulla strada che da New Orleans condurrà al John Coltrane ultraterreno dell’ultima fase di carriera e all’Ornette Coleman profeta della no wave.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.227, settembre 2002.

Spiritual Unity

Il 10 luglio 1964 Albert Ayler entrava in uno studiolo newyorkese con il contrabbassista Gary Peacock e il batterista Sunny Murray. Con loro, pare, solo altre due persone: la moglie di Peacock, Annette, e il proprietario della neonata casa discografica per la quale l’album doveva uscire, Bernard Stollman. Non c’era invece il tecnico del suono che, abituato a registrare musica latina, sconcertato da quanto stava ascoltando se ne andò appena finito di regolare i livelli e come non bastasse (convinto che si trattasse di un demo) lasciando tutto in mono. Poco male: la registrazione è cristallina. Peggio per lui: si perse uno dei momenti più emozionanti della musica del ’900. “Mio dio! Che debutto beneaugurante per un’etichetta!”, commentò a un certo punto Stollman rivolto ad Annette. E aveva proprio ragione.

Fu un doppio esordio, “Spiritual Unity”. Per Ayler, che in precedenza ne aveva pubblicato due in Danimarca, era il primo 33 giri americano. Per Stollman, che aveva da poco lasciato una proficua attività avvocatizia fulminato proprio da un concerto del sassofonista di Cleveland, il primo impegno (fu però il numero due del catalogo ESP) da discografico. Se si cerca un album che riassuma la poetica ayleriana smussandone gli spigoli più acuminati, è “Love Cry”, debutto su raccomandazione di Coltrane e datato 1968 per la Impulse!, il titolo da avere. Ma se tale poetica, tanto oltre il jazz precedente da trascenderlo, la si vuole conoscere nella forma più incompromissoria è con queste giostre impazzite di suoni, che portarono al limite estremo l’ideale di improvvisazione collettiva di New Orleans, e nel farlo anticiparono di oltre dieci anni la no wave, che bisogna confrontarsi. Incompreso alla fine anche dai pochi estimatori, che tacciarono di commercialismo nel 1969 la svolta funk (e persino psichedelica in spirito) di “New Grass” e non si fecero blandire dal successivo e coltraniano “Music Is The Healing Force Of The Universe”, Ayler cadeva nella depressione e nelle luride acque dell’East River. Venne ripescato il 25 novembre 1970, tanto malridotto da essere a stento identificabile.

Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.13, primavera 2004.

Live In Greenwich Village: The Complete Impulse Recordings

Appena tre numeri fa si auspicava che la Impulse! riparasse, per quanto possibile, alla criminale indifferenza con cui trattò Albert Ayler in vita ristampando finalmente i cinque LP, sui sei che pubblicò del nostro eroe, assenti da troppo tempo all’appello (l’unico in catalogo era “Love Cry”). Almeno per quanto attiene alle incisioni dal vivo ha provveduto. “Live In Greenwich Village” raccoglie integralmente i due album (singolo il primo, doppio il secondo) che documentarono i concerti del 18 dicembre 1966 e del 26 febbraio 1967. Saggiamente, le scalette di “In Greenwich Village” e “The Village Concerts” sono state rivoluzionate in modo da presentare un concerto per CD. Piccola consolazione per chi già possedeva i dischi originali, sono state aggiunte, in apertura e in chiusura, una Holy Ghost datata 28 marzo 1965 e una Universal Thoughts del febbraio ’67.

È l’Ayler della maturità quello dei concerti al Greenwich. L’esuberanza un po’ isterica di “Bells” ha lasciato il passo a gesti più misurati e a un maggiore controllo della materia sonica. Che è però poi la stessa, coagulo di feste carnascialesche a New Orleans, danze zigane e jazz che più free non è dato immaginare. Oltre tre decenni dopo, ancora stordente e illuminante d’immenso.

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.9, gennaio/febbraio 1999.

Music Is The Healing Force Of The Universe

Disco sfortunato come pochi questo “Music Is The Healing Force Of The Universe”, che non vendette nulla e causò il licenziamento del suo artefice da parte della Impulse!, è rimasto fuori catalogo per ben trentatré anni e torna infine disponibile, per la prima volta in digitale, in un’edizione ben suonante, esteticamente valida (un cartonato apribile che riproduce in miniatura l’originale) ma per due ragioni sommamente discutibile: una è che priva di note e l’altra è che già si sa che la sua permanenza nei negozi, come del resto quella di altri titoli della stessa etichetta, è a tempo. La seconda vita concessa a quest’album controverso – pessima la sua fama postuma, ma quanti davvero lo hanno ascoltato? – avrà fine nel marzo 2006 e dunque regolatevi.

Sfortunato, ho scritto, ma è un eufemismo: è l’ultimo lavoro che Ayler incise in vita, visto che quindici mesi meno due giorni dopo il completamento delle sue registrazioni il corpo del sassofonista, probabilmente suicida, veniva ripescato nelle acque dell’East River, e con il senno di poi impressiona il suo volto sul retro copertina, che è quello di uno che mica sta tanto bene. Nondimeno un’aura di positività, espressa sin dal titolo, avvolge un disco assai distante dal suono post-free che si è soliti associare al nostro uomo, anche se meno del precedente “New Grass”, misconosciuto classico che vergognosamente continua a essere irreperibile. Qui la sua musica è coltraniana per un verso, ma più Alice che John (esemplare in tal senso il raga scozzese Masonic Inborn, Part 1), e per l’altro imbevuta d’errebì, con Henry Vestine dei Canned Heat a blueseggiare nella conclusiva Drudgery. Quest’ultima è solo una curiosità, tutto il resto della scaletta no.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.236, giugno 2003.

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Audio Review n.393

È in edicola il numero 393 di “Audio Review”. Contiene mie recensioni dei nuovi album di Antibalas, Church, William Patrick Corgan, David Crosby, Fink, Four Tet, Chris Hillman, Ibeyi, Lali Puna, Orchestral Manoeuvres In The Dark, Pere Ubu, Linda Perhacs, Stephen Stills & Judy Collins, Kamasi Washington e Lucinda Williams e di una ristampa di Jon Hassell. Nella rubrica del vinile ho scritto di Etta James e Miles Davis.

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Chelsea Wolfe – Hiss Spun (Sargent House)

Siamo continuamente bombardati da cattive notizie, la gente viene abusata e uccisa per ragioni insensate, o senza nessun motivo, e si direbbe che il mondo abbia passato gli ultimi mesi a piangere. Ma poi ci rifletti su e concludi che il mondo è un fottuto casino da molto tempo, se non da sempre. È una sensazione dalla quale mi sono scoperta sopraffatta e l’unica reazione possibile è scriverne.” Così (solo, in un linguaggio un po’ più colorito) la trentatreenne californiana Chelsea Wolfe nelle note che accompagnano il suo settimo o ottavo o nono (a seconda che si contino o meno uno ufficialmente mai pubblicato, ma che a cercarlo si trova, e una – per lei curiosa – raccolta di session acustiche) album. Nello stesso comunicato dice “escapista” la musica contenuta in “Hiss Spun”, ma il termine va inteso nell’accezione non certo disimpegnata e divertita di una che ha intitolato un suo disco “Apokalypsis”, quello dopo “Pain Is Beauty” e l’ultimo prima di questo “Abyss”. Recensendo il quale avvertivo che “non è una tazza di thè che può piacere a tutti” e vale ancora di più per il successore.

Insomma: pensatela (pur senza quei mezzi – e quelle sperimentazioni – vocali) come una Diamanda Galas con come padre un cantante country (vero!) e cresciuta, oltre che a folk e indie rock, a metal del più torpidamente estremo. Intimidente il trittico iniziale: a una Spun stridula, lenta e massiccia vanno dietro la psicantropa 16 Psyche e la tambureggiante e ansiogena (la voce in territori grind) Vex. Se riuscite a superare questo test di ammissione dopo l’oscuro, pulsante siparietto Strain potrete… ahem… godere di altri otto brani appena meno estremi, con l’occasionale affacciarsi alla ribalta anche di una chitarra acustica e qualche sprazzo onirico invece che incubotico.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.391, settembre 2017.

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Tricky – Ununiform (False Idols)

Suo tredicesimo album oppure decimo da solista (escludendo dal conto il progetto Nearly God e un paio di collaborazioni con altri artisti) “Ununiform” è in ogni caso presentato dallo stesso autore come la prima realizzazione “vera” dacché tre anni fa si trasferì a Berlino. Trasloco niente affatto dettato dalla fama della capitale tedesca di attuale mecca europea del nightclubbing. Anzi! Città nuova, vita nuova. “Mi piace qui perché non conosco nessuno. Mangio cibo sano, faccio lunghe passeggiate, vado in bici. Ho smesso di bere, la mattina mi alzo alle nove e la sera alle undici sono a letto. A qualcuno potrà sembrare una vita noiosa, ma non sto facendo altro che prendermi cura di me stesso.” Fermamente intenzionato a invecchiare (il traguardo del mezzo secolo è vicino), ora che è venuto a patti con il fatto che il primo ricordo da bambino sia quello del corpo della madre (suicida quando lui aveva quattro anni) adagiato nel feretro. Di “Ununiform” (inciso maggioritariamente a Berlino, tranne quattro tracce registrate a Mosca con ospiti vari protagonisti della scena hip hop locale), Tricky è soddisfatto: “È il mio primo disco da molto tempo in qua che non ho fatto per pagare dei debiti, niente più tasse arretrate ed ecco perché è così rilassato”, racconta. Ove quel “rilassato” va naturalmente inteso nell’accezione trickiana del termine, cioè in rapporto all’artista titolare del downtempo (stile di cui fu, con i Massive Attack, fra gli ideatori) più luciferino di sempre.

Nuovo atto della rinascita inscenata negli anni ’10 dopo un inizio di millennio opaco, l’album sciorina il consueto campionario di voci femminili da urlo, un sound spesso alla “Maxinquaye” e due sorprese: la electro schiacciasassi Dark Days e una cover delle Hole, Doll Parts.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.391, settembre 2017.

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Il Prince Jammy che si fece King

Anni cinquantanove portati più che discretamente, faccia paciosa e simpatica (nelle foto con baffetti marcata la somiglianza con Richard Pryor), pancetta esibita, Lloyd James non si fa problemi ad ammetterlo e anzi, confessandolo, scoppia in una risata: pur avendone firmato la produzione (e chi sa di reggae è conscio dell’importanza che ha il produttore in quella musica: spesso più rilevante del cantante stesso), col cavolo che si ricordava di tutte ma proprio tutte le – udite, udite – centocinquantanove canzoni che sfilano nei quattro doppi volumi di “King Jammy’s Selector’s Choice” freschi di stampa per i tipi della VP. Sovente ha dovuto rinfrescargli la memoria Johnny Wonder, vale a dire colui che, con Joel Chin, si è assunto il titanico compito di selezionare, rimasterizzare, porre in sequenza tutto questo bendiddio scegliendolo fra una messe immane di materiali, svariate centinaia di LP, forse migliaia di singoli. E questo, si badi bene, saltando a pie’ pari il periodo – la seconda metà dei ’70 – in cui Jammy era Prince e non ancora King e trafficava con il dub piuttosto che con la dancehall. Stavo per usare l’espressione “rimettere ordine” ma mi sono reso conto che, se adoperata come di solito la si usa per similari operazioni in ambito rock, sarebbe stata decisamente fuori luogo. Visti con gli occhi dello studioso di musica popolare questi otto CD (poco sotto le nove ore e mezza la durata complessiva) sono, se non un’occasione sprecata, perlomeno una possibilità che l’etichetta si è giocata male. Si sarebbe tanto per cominciare potuto radunarli in un box e l’appiglio commerciale ne sarebbe stato (Zorn insegna) incrementato esponenzialmente. Buona cosa sarebbe poi stata affiancare loro il consueto librettone, zeppo di foto e con quel paio di approfonditi saggi storico-critici a corredo. Sistemare il tutto nell’esatta sequenza cronologica. Oppure accostando l’un l’altra le varie interpretazioni degli innumerevoli nomi ricorrenti, un impressionante “who’s who” della battuta in levare degli anni ’80 e primi ’90: da Wayne Smith a Tenor Saw, da Half Pint a Shabba Ranks, da Dennis Brown a Cocoa Tea passando per Johnny Osbourne, Frankie Paul, Pinchers, Gregory Isaacs, Tiger, Sister Charmaine, Chaka Demus, Ninjaman, Sanchez… oltre a vecchi leoni e marpioni come Horace Andy e John Holt e per non citare che alcuni fra i più celebri. Anche se, intendiamoci, per gli standard giamaicani la precisione comunque esibita è più unica che rara, con le canzoni radunate a blocchi di riddim (ovverossia sono state messe in fila quelle che usano la medesima base), i crediti puntigliosamente elencati per ogni brano e qualche ulteriore notizia aggiunta. Però mancano una visione e un’interpretazione d’assieme. Però, scendendo più terra terra, non si trova a pagarla una data che sia una. Però ’sti cazzi.

Visti con gli occhi del semplice appassionato di musica popolare, ascoltati con i fianchi e le gambe almeno quanto con gli orecchi, questi otto CD sono una festa pazzesca in cui non ci si stanca mai di immergersi, roba che ti mette addosso un’allegria tale che ti sorprendi a cantare facendo le vocine più assurde come il cretino che sei, roba che ti scopri sudato senza magari avere alzato il culo dalla poltrona. È giusto quando ormai sei stremato, e pure i woofer reclamano pietà, che magari rientri per qualche attimo nei panni del posato critico e inizi a porre in relazione le informazioni sparse, che sono tante, a ricostruire vicende, a fare ragionamenti. Ce n’è eccome per lo studioso. Chi desiderasse tracciare una storia sociale della Giamaica dell’ultimo quarto di secolo non dovrebbe che tirare giù i testi di questo centinaio e mezzo di canzoni e fra un peana sessuale e un’istantanea di povertà dal ghetto, una serenata e un’invettiva politica ne avrebbe da analizzare, ne avrebbe. Fra l’altro scoprendo subito che la dottrina rasta non è affatto maggioritaria nell’isola, che gli argomenti cosiddetti “culturali” sono finiti in retroguardia. Ove il musicologo potrebbe sottilmente disquisire sullo stile più… ecologico che si ricordi, la dancehall, un ambito dove non si butta mai via nulla, dove con un’idea buona si confezionano a volte cinquanta brani, dove sono una pratica comune gli album costruiti per intero su un solo riddim. Fra l’altro scoprendo che la svolta elettronica sanzionata per il reggae nell’85 dal clamoroso successo di Under Mi Sleng Teng, canzone trovata praticamente per caso da Wayne Smith pasticciando con un pattern di batteria e una linea di basso pre-registrati in una tastierina Casio da quattro soldi, non ha assolutamente cancellato quanto c’era stato prima. Tant’è che non è raro – il contrario! – che il riciclaggio coinvolga basi che risalgono nel tempo fino all’epoca dello ska e addirittura più in giù, fino a mento e calypso.

Ma ne ho abbastanza di fare il critico. Dura mantenere l’aplomb mentre Dominic (volume 3) si lamenta di quanti gli dicono che somiglia a Boy George, negando con sdegno l’evidenza. Durissima quando (volume 4) Shabba Ranks applica la metafora biblica della cruna dell’ago non ai ricchi che non entreranno nel regno dei cieli, bensì alle ragazze che non ti faranno – ahem – entrare. Impossibile quando (traccia successiva) Admiral Bailey prende a rantolare, su una scansione irresistibilmente saltellante, “give me punaany, want punaaany… any punanny is the same”. Sapendo che la “punanny” è quella cosina che da sempre fa girare il mondo.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.632, marzo 2007.

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Randy Newman – Dark Matter (Nonesuch)

È talmente irresistibile Putin – “quando si toglie la camicia fa impazzire le signore/quando si toglie la camicia mi fa desiderare di essere una di loro”: cantato con dietro un’orchestrina che tratteggia una melodia folk di gusto ovviamente russo – che per un attimo il dispiacere che Newman abbia deciso di cancellare dalla scaletta quella What A Dick il cui bersaglio invece è Trump (“il livello del dibattito è già abbastanza basso e non volevo abbassarlo ancora”) si fa veramente… troppo. Anche perché mentre continua a comporre una colonna sonora via l’altra il nostro quasi settantaquattrenne uomo resta assai avaro quando si tratta di donarci canzoni nuove. Proprio come questo, il precedente “Harps And Angels” si era fatto aspettare nove anni (il disco ancora prima, “Bad Love”, undici!) e se quello conteneva dieci tracce di cui nove inedite con questo, espunto il brano di cui sopra, siamo a nove e le inedite sono otto. Giacché la depistantemente gioiosa It’s A Jungle Out There è stata il tema conduttore di otto delle nove stagioni di Monk. Insomma: ogni canzone a firma Randy Newman è preziosa.

Però forse va bene così, siccome un altro pezzo satirico avrebbe spostato gli equilibri di un lavoro che si apre con la clamorosa sinfonietta americana contrappuntata di gospel di The Great Debate (ove si dibatte, scoprendosi impotenti contro il fanatismo, con creazionisti, antivaccinisti e così via) e si congeda con la scarna e toccante Wandering Boy, laddove un padre si macera sulla sorte di un figlio perduto. Meglio così, perché stavolta più che nei numeri politici (Brothers, sulla crisi cubana), il genio di Newman rifulge in vignette struggenti come la storia di amore senile She Chose Me o l’addio di una donna morente al suo uomo ridotto alla demenza di Lost Without You.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.391, settembre 2017.

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