Il jazz più che free di Albert Ayler

Il 25 novembre 1970 il corpo di Albert Ayler, a tal punto malridotto dalla lunga permanenza in acqua da essere a malapena riconoscibile, veniva ripescato nell’East River, a New York. Erano trascorsi venti giorni dacché era stato visto vivo da qualcuno per l’ultima volta. A seguire, una piccola rassegna di mie recensioni di album – due dal vivo (in origine tre) e due in studio – di uno dei sassofonisti più grandi e originali della storia del jazz.

Prophecy

Formidabile quell’anno, il 1964, per Albert Ayler, che il 14 gennaio si sposava, il 24 febbraio registrava contestualmente il suo ultimo album di standard (il meraviglioso e sottovalutatissimo “Swing Low Sweet Spiritual”, aka “Goin’ Home”) e il primo di composizioni autografe (“Spirits”), il 14 giugno incideva dal vivo, al newyorkese Cellar Cafe, questo “Prophecy” e il 10 luglio tornava in studio, con gli stessi accompagnatori, sul medesimo materiale, nella seduta che frutterà il 33 giri d’esordio su ESP e secondo in assoluto dopo “My Name Is” dell’anno prima, “Spiritual Unity”. Dal che avrete dedotto che il 1964 del nostro eroe fu sì formidabile ma che il mondo non era ancora pronto per lui, né mai lo sarà nella sua vita troppo breve e dal finale tragico. Tant’è che di cinque LP (contando la colonna sonora improvvisata sul momento “New York Eye And Ear Control”) registrati, solamente due vedevano la luce allora. Troppo ardite le traiettorie tracciate dal suo sax sulla sghemba ritmica di Gary Peacock e Sunny Murray perché persino un uomo dalle ampissime vedute come Bernard Stollman, che aveva fondato la ESP dopo avere assistito a un concerto del nostro uomo, si azzardasse a seguirle sempre e comunque. Lo stesso Ayler – non solo i tanti denigratori – rifiuterà più avanti di chiamare “jazz” le sue schizoidi creazioni. Aveva ragione? Discuterne sarebbe un esercizio di sofismo: è semplicemente musica immortale.

Ghosts, che tante altre volte tornerà, debutta qui in due versioni, attorniata da Spirits, Wizard, Prophecy. Felici sarabande d’animo popolaresco e indicibile lirismo sulla strada che da New Orleans condurrà al John Coltrane ultraterreno dell’ultima fase di carriera e all’Ornette Coleman profeta della no wave.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.227, settembre 2002.

Spiritual Unity

Il 10 luglio 1964 Albert Ayler entrava in uno studiolo newyorkese con il contrabbassista Gary Peacock e il batterista Sunny Murray. Con loro, pare, solo altre due persone: la moglie di Peacock, Annette, e il proprietario della neonata casa discografica per la quale l’album doveva uscire, Bernard Stollman. Non c’era invece il tecnico del suono che, abituato a registrare musica latina, sconcertato da quanto stava ascoltando se ne andò appena finito di regolare i livelli e come non bastasse (convinto che si trattasse di un demo) lasciando tutto in mono. Poco male: la registrazione è cristallina. Peggio per lui: si perse uno dei momenti più emozionanti della musica del ’900. “Mio dio! Che debutto beneaugurante per un’etichetta!”, commentò a un certo punto Stollman rivolto ad Annette. E aveva proprio ragione.

Fu un doppio esordio, “Spiritual Unity”. Per Ayler, che in precedenza ne aveva pubblicato due in Danimarca, era il primo 33 giri americano. Per Stollman, che aveva da poco lasciato una proficua attività avvocatizia fulminato proprio da un concerto del sassofonista di Cleveland, il primo impegno (fu però il numero due del catalogo ESP) da discografico. Se si cerca un album che riassuma la poetica ayleriana smussandone gli spigoli più acuminati, è “Love Cry”, debutto su raccomandazione di Coltrane e datato 1968 per la Impulse!, il titolo da avere. Ma se tale poetica, tanto oltre il jazz precedente da trascenderlo, la si vuole conoscere nella forma più incompromissoria è con queste giostre impazzite di suoni, che portarono al limite estremo l’ideale di improvvisazione collettiva di New Orleans, e nel farlo anticiparono di oltre dieci anni la no wave, che bisogna confrontarsi. Incompreso alla fine anche dai pochi estimatori, che tacciarono di commercialismo nel 1969 la svolta funk (e persino psichedelica in spirito) di “New Grass” e non si fecero blandire dal successivo e coltraniano “Music Is The Healing Force Of The Universe”, Ayler cadeva nella depressione e nelle luride acque dell’East River. Venne ripescato il 25 novembre 1970, tanto malridotto da essere a stento identificabile.

Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.13, primavera 2004.

Live In Greenwich Village: The Complete Impulse Recordings

Appena tre numeri fa si auspicava che la Impulse! riparasse, per quanto possibile, alla criminale indifferenza con cui trattò Albert Ayler in vita ristampando finalmente i cinque LP, sui sei che pubblicò del nostro eroe, assenti da troppo tempo all’appello (l’unico in catalogo era “Love Cry”). Almeno per quanto attiene alle incisioni dal vivo ha provveduto. “Live In Greenwich Village” raccoglie integralmente i due album (singolo il primo, doppio il secondo) che documentarono i concerti del 18 dicembre 1966 e del 26 febbraio 1967. Saggiamente, le scalette di “In Greenwich Village” e “The Village Concerts” sono state rivoluzionate in modo da presentare un concerto per CD. Piccola consolazione per chi già possedeva i dischi originali, sono state aggiunte, in apertura e in chiusura, una Holy Ghost datata 28 marzo 1965 e una Universal Thoughts del febbraio ’67.

È l’Ayler della maturità quello dei concerti al Greenwich. L’esuberanza un po’ isterica di “Bells” ha lasciato il passo a gesti più misurati e a un maggiore controllo della materia sonica. Che è però poi la stessa, coagulo di feste carnascialesche a New Orleans, danze zigane e jazz che più free non è dato immaginare. Oltre tre decenni dopo, ancora stordente e illuminante d’immenso.

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.9, gennaio/febbraio 1999.

Music Is The Healing Force Of The Universe

Disco sfortunato come pochi questo “Music Is The Healing Force Of The Universe”, che non vendette nulla e causò il licenziamento del suo artefice da parte della Impulse!, è rimasto fuori catalogo per ben trentatré anni e torna infine disponibile, per la prima volta in digitale, in un’edizione ben suonante, esteticamente valida (un cartonato apribile che riproduce in miniatura l’originale) ma per due ragioni sommamente discutibile: una è che priva di note e l’altra è che già si sa che la sua permanenza nei negozi, come del resto quella di altri titoli della stessa etichetta, è a tempo. La seconda vita concessa a quest’album controverso – pessima la sua fama postuma, ma quanti davvero lo hanno ascoltato? – avrà fine nel marzo 2006 e dunque regolatevi.

Sfortunato, ho scritto, ma è un eufemismo: è l’ultimo lavoro che Ayler incise in vita, visto che quindici mesi meno due giorni dopo il completamento delle sue registrazioni il corpo del sassofonista, probabilmente suicida, veniva ripescato nelle acque dell’East River, e con il senno di poi impressiona il suo volto sul retro copertina, che è quello di uno che mica sta tanto bene. Nondimeno un’aura di positività, espressa sin dal titolo, avvolge un disco assai distante dal suono post-free che si è soliti associare al nostro uomo, anche se meno del precedente “New Grass”, misconosciuto classico che vergognosamente continua a essere irreperibile. Qui la sua musica è coltraniana per un verso, ma più Alice che John (esemplare in tal senso il raga scozzese Masonic Inborn, Part 1), e per l’altro imbevuta d’errebì, con Henry Vestine dei Canned Heat a blueseggiare nella conclusiva Drudgery. Quest’ultima è solo una curiosità, tutto il resto della scaletta no.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.236, giugno 2003.

4 commenti

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4 risposte a “Il jazz più che free di Albert Ayler

  1. Chango

    Bellissimo, bellissimo, bellissimo.
    In queste tre recensioni (?), traspare tutto il tuo amore per lui.
    Grazie del ricordo. Io nonostante tutto amo ricordarlo con Love Cry, sarà a causa del titolo ma non solo
    il 1964 del nostro eroe fu sì formidabile ma che il mondo non era ancora pronto per lui, né mai lo sarà nella sua vita troppo breve…

  2. Pingback: Albert Ayler – Goin’ home – weeko

  3. Pierluigi Romagnoli

    Ieri mattina, Love Cry a tutto volume , un near mint che ancora mi gonfia il petto…e mio figlio di dieci anni che canticchiava assieme ai cori…un grande grande capolavoro dell’estetica Black!

  4. Pierluigi Romagnoli

    scusa i cori si riferivano al secondo lato di New Grass, insomma mattinata a tutto Albert Ayler, anche grazie a questo blog che mi ha ricordato di esistere.

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