Nel momento in cui scrivo il settimo lavoro in studio dei National è fuori da pochissimo e ancora non si sa se eguaglierà o migliorerà il piazzamento dei più immediati predecessori – “High Violet” del 2010; “Trouble Will Find Me” del 2013 – nelle classifiche USA. Entrambi arrestatisi al numero 3. Può essere un indizio che in quella UK, già uscita, sia primo. Lì mai il gruppo di Cincinnati (ma newyorkese di adozione) del cantante Matt Berninger e delle coppie di fratelli Dessner (Aaron e Bryce, alle chitarre) e Devendorf (Scott e Bryan, rispettivamente basso e batteria) aveva guardato tutti dall’alto. Quando fino a “Boxer” del 2007, già il quarto album e a detta dei più il loro capolavoro, erano un nome solo “di culto”. Invece cocchi della critica da subito e in misura financo esagerata. Pensate che quando nel 2013 il “New Musical Express” compilava una lista dei cinquecento più grandi dischi di tutti i tempi ne includeva quattro loro e c’è da credere che gli stessi National l’abbiano ritenuta una forzatura. Ma in fondo stupisce di più che, dai e dai, si sia conquistata una solida popolarità una band tanto elusiva, i cui album crescono alla distanza, che di rado porge riff o melodie capaci di agganciare al volo l’ascoltatore.
Come dei Radiohead americani, si legge sempre più spesso e – nonostante non abbiano mai avuto una loro Creep e sperimentino meno radicalmente di Yorke e soci, mantenendosi sostanzialmente in un ambito pop-rock – il paragone ci sta. Qui più che altrove in I’ll Still Destroy You, in Guilty Party, in una traccia omonima che suggella a mo’ di spettrale (ansiogena e dunque un ossimoro) ninnananna. Convincono altrettanto quando evocano piuttosto gli U2, in Empire Line. Di meno quando fanno collidere Pixies e Pearl Jam, nel raro assalto rock Turtleneck.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.392, ottobre 2017.