È in edicola il numero 394 di “Audio Review”. Contiene mie recensioni dei nuovi album di Marc Almond, Amadou & Mariam, Asaf Avidan, Cheap Wine, CousteauX, Baxter Dury, Noel Gallagher’s High Flying Birds, Girls In Hawaii, Sharon Jones, Kitty, Daisy & Lewis, Morrissey, Sofa Surfers e Mavis Staples e di una ristampa di Lee Hazlewood. Nella rubrica del vinile ho scritto in lungo degli Isley Brothers e più in breve di Howe Gelb & Lonna Kelly e Lalo Schifrin.
A distanza di anni, posso chiederti, Eddy, cosa ne pensi di “Shadows And Reflections” di Marc Almond? L’ho preso qualche giorno fa in una svendita e non sono sicuro di averlo capito bene. Grazie.
Come con troppi album che recensisco non mi è poi più capitato di riascoltarlo. Ti riporto quanto ne scrivevo al tempo (voto 7).
Il 9 luglio Marc Almond ha compiuto sessant’anni. Aveva cominciato a festeggiare ben prima, lo scorso ottobre, pubblicando una delle più imponenti raccolte di sempre e chiunque, “Trials Of Eyeliner: The Anthology 1979-2016”: dieci CD, centottantanove tracce, tredici ore di durata, e faceva allora la figura del bignami, in primavera, la “solo” doppia “Hits And Pieces”, con i suoi trentacinque pezzi per due ore e mezza e spicci. Dritta nei Top 10 UK, appena fuori dai quali staziona, mentre scrivo queste righe, “Shadows And Reflections”. Probabile che l’abbiano comprato in pochissimi fra quanti si erano portati a casa il “Best Of” di qualche mese prima e invece tutti ma proprio tutti quelli che avevano acquistato il decuplo. Si può dire “di culto” un artista che ha venduto trenta milioni di dischi? Nel caso dell’ex-Soft Cell sì, carriera scissa fra l’elettronica dei fortunatissimi esordi in duo con Dave Ball – chi non ricorda Tainted Love? – e un pop barocco e melò che gli ha sì regalato il suo altro più grande successo – il duetto con Gene Pitney Something’s Gotten Hold Of My Heart – ma lo ha pure posto completamente al di fuori del mainstream.
Se nel 2015 “The Velvet Trail” provava a – ahem – sintetizzare, “Shadows And Reflections” si rituffa nel “camp”, ammesso non sia una contraddizione in termini definire così orchestrazioni certo debordanti ma anche raffinatissime di un repertorio che mette insieme gli Action e Bill Fury, gli Young Rascals, Timi Yuro e Burt Bacharach, Julie Driscoll, gli Herd del giovane Peter Frampton e gli Yardbirds, Bobby Darin e Johnny Mandel. Tutto amalgamando con archi che colano come lava e miele e l’inconfondibile voce del nostro uomo: un po’ Scott Walker, un po’ Dusty Springfield, un po’ Liza Minelli.
Grazie infinite. Un giudizio in cui mi ritrovo, il tuo; aggiungo solo che ci sono piacevoli e quasi mai stucchevoli atmosfere da colonna sonora di un film italiano degli anni ’60, ma per il resto concordo in toto (con la t minuscola), voto compreso.