È da ieri in edicola il numero di febbraio di “Blow Up”. Fra il tanto intrigante resto contiene un mio articolo, lungo ben dieci pagine, dedicato ai primi straordinari anni della carriera solistica di Bert Jansch e alla saga dei Pentangle.
Archivi del mese: gennaio 2018
L’ethno-krautrock degli Embryo (per Christian Burchard, 1946-2018)
Apprendo per caso (copertura mediatica: zero) che dieci giorni fa ci ha lasciato Christian Burchard, per quasi mezzo secolo anima e unico punto fermo di un collettivo per il quale sono transitati musicisti a decine. Catalogati solo per comodità alla voce “krautrock”, e fra i minori, gli Embryo sono stati un esempio unico per ardire di contaminazioni incrociate fra musiche di ogni dove.
Opal (Ohr, 1970)
Enfant prodige del jazz, il batterista, percussionista, vibrafonista e tastierista Christian Burchard si ritrova a spalleggiare nel 1967 il pianista afroamericano Mal Waldron, con la possibilità di volare oltre Atlantico e la prospettiva di una carriera importante nell’ambito. Sin da allora non gli piace però limitarsi e divide difatti il suo tempo fra jazz e rhythm’n’blues. E quando da lì a breve anche su Monaco di Baviera comincia a soffiare il vento della psichedelia non si fa trovare impreparato. Soltanto di passaggio nei primi Amon Düül II, nel 1969 dà vita agli Embryo, sigla giunta sino a noi e al nuovo secolo attraverso infiniti cambi di formazione e decine di album. Quello che gode di miglior fama seguita a restare il primo, benché sia rappresentativo solo relativamente di un suono che già nel successivo “Rache” inizierà a prendere coloriture etniche e tanto più dopo un memorabile tour che nel 1972 traversava l’Africa sahariana. “Opal” non presenta ancora richiami world, ma per il resto vi si incontra un po’ di tutto, dal jazz elettrico cui da poco si era convertito Miles Davis a certa avanguardia europea, fra impressioni di free e schizzi di blues e di rock’n’roll.
Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n. 24, inverno 2007.
Rache (United Artists, 1971)
Nel loro primo e stupendo album – “Opal”, datato 1970 – gli Embryo del batterista, percussionista, vibrafonista e tastierista Christian Burchard, già enfant prodige del jazz e già transitato per le fila degli Amon Düül II, sistemano con gusto psichedelico di tutto un po’: da un jazz elettrico in scia a Miles Davis a istanze avant e free, fra un ricordo di blues e un tocco di rock’n’roll. La svolta “etnica” vera e propria, filo conduttore della foltissima discografia di una sigla tuttora attiva, non si materializzerà appieno che nel ’72, in seguito a un tour nordafricano, ma già l’anno prima, in questo “Rache” fresco di ristampa per i tipi di Materiali Sonori, se ne colgono chiari indizi. Ad esempio in una Revenge che si direbbe partire dal Brasile della batucada e dei tropicalisti per approdare in Sicilia. Ad esempio in una Change che trasloca certi Tangerine Dream nella penisola iberica e da lì nel Maghreb. Laddove Time fa risuonare echi di Jethro Tull e Colosseum e Try To Be azzarda saltellante funk appena stordito d’acido. Lavoro di transizione nel senso positivo del termine, non imprescindibile ma nemmeno soltanto una curiosità d’epoca. Musicalmente benvenuta ma filologicamente discutibile l’aggiunta alla scaletta originale di un lungo brano, diviso in due parti, registrato vent’anni dopo dalla stessa formazione.
Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.665, dicembre 2009.
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Audio Review n.395
È in edicola da inizio settimana il numero 395 di “Audio Review”. Contiene mie recensioni degli ultimi album di Bardo Pond, Andrew Bird, Blitzen Trapper, Ken Boothe, Eminem, Jim James, Limiñanas, N.E.R.D., Angel Olsen, Bob Seger, Shed Seven, Sam Smith e Wu-Tang e di nuove ristampe di Ian Dury e Moody Blues. Nella rubrica del vinile ho scritto in lungo dei Dire Straits e più in breve di Tommy Bolin e del Modern Jazz Quartet.
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Quel bisbetico indomito di Mark E. Smith (5 marzo 1957-24 gennaio 2018)
Aveva sessant’anni, ne dimostrava duecento, conservava lo spirito iconoclasta del diciannovenne che fondò i Fall dopo essere stato a uno spettacolo dei Sex Pistols. Quattro mie recensioni di tre album e una raccolta della band di Mark E. Smith. Oltre a “Live At The Witch Trials” e alla raccolta dei singoli su Rough Trade dovreste avere in casa almeno “Grotesque” (1980) e “Code: Selfish” (1992). Confesso poi un debole per “Bend Sinister” (1986).
Live At The Witch Trials (Step-Forward, 1979)
Tirannico e scostante ma geniale, influenzato dai Can e da Captain Beefheart, da Iggy Pop e da Peter Hammill (gli stessi che ispirarono Lydon), Mark E. Smith emerge dal palingenetico caos del punk esibendo uno stile subito peculiare, alla testa della prima di un numero incalcolabile di incarnazioni dei Fall (che i nuovi arrivati si inseriscano nel consolidato meccanismo con irrisoria facilità è uno degli inesplicabili miracoli del rock degli ultimi trent’anni). Registrato (non dal vivo, contrariamente a come farebbe pensare il titolo) in un giorno e mixato il successivo, “Live At The Witch Trials” è molto e indiscutibilmente punk per lo spirito che lo anima, assai meno (a parte qualche accelerata) per le sue canzoni, perlopiù storte e acide ed evidentemente memori di certo krautrock.
Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.17, primavera 2005.
Totally Wired: The Rough Trade Anthology (Earmark, 2003)
Copertina di cartone passabilmente spesso che si apre in tre e in ciascuna tasca i consueti centottanta grammi di vinile vergine: si può dire pesante anche fuor di metafora questa monumentale raccolta che documenta il soggiorno dei mancuniani Fall presso la londinese Rough Trade nei primi anni ’80, trenta mesi appena e con in mezzo già un paio di prove tecniche di divorzio, ma incredibilmente prolifici persino per gli standard di una band che della prolificità ha sempre fatto, con l’instabilità dell’organico, la principale delle sue caratteristiche. Tant’è che sei facciate e trentuno canzoni non rappresentano un’integrale ma un assaggio di quello che per Mark E. Smith e ognor cangiante compagnia è stato uno dei periodi migliori. Qui in ogni caso la creazione forse più memorabile, The Man Whose Head Expanded, di un artista tirannico e scostante ma geniale che, influenzato in egual misura dai Can e da Captain Beefheart, da Iggy Pop e da Peter Hammill, emergeva dalla scena punk esibendo uno stile da subito peculiare. Gli è rimasto fedele e ancora oggi, come certifica il fresco di stampa ed eccelso “Country On The Click”, può a ragione guardare dall’alto in basso gran parte di una contemporaneità che ostentatamente disprezza.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.242, gennaio 2004.
The Real New Fall LP (Formerly Country On The Click) (Action, 2003)
Immarcescibili Fall o per meglio dire immarcescibile Mark E. Smith, che della compagine di Manchester è dal fatidico 1976 che la vide nascere il Magister sempre intento a rimescolare formazioni: che i nuovi arrivati si inseriscano con puntuale e irrisoria facilità nei consolidati meccanismi è uno degli inesplicabili miracoli del rock dell’ultimo quarto di secolo. Sovratitolato “The Real New Fall LP” a distinguerlo dal profluvio di live e raccolte che ingrossano (a ritmi da lungi insostenibili anche per il più accanito degli esegeti) una discografia ormai tentacolare, “Country On The Click” dev’essere all’incirca il trentesimo “vero” nuovo album in studio di Smith e sempre diversi sodali. Lo stile era già ben definito agli esordi e non ha mai subito rivoluzioni, al limite aggiustamenti. Quali le ragioni allora per segnalare un disco che non propone novità di un gruppo che in Gran Bretagna è un’istituzione ma fuori non è mai andato, a parte passeggeri momenti nei primi ’80 e poi nei primi ’90, al di là di un ristretto culto? Be’, si dà il caso che sia il migliore da “Code: Selfish”, una storia del ’92. Si dà il caso che al confronto la quasi totalità delle nuove leve – anche di quelle più incensate dalla stampa, ivi compreso il giornale che state leggendo – faccia una figura miserevole. Nullità.
Qualche prova? Una Green Eyed Loco-Man che rende i P.I.L. teutonici, il vortice punk-surf di Theme From Sparta F.C., una Contraflow che rimanda agli Ultravox! primigeni, una Open The Boxoctosis #2 che fa venire nostalgia di certi Stranglers, lo stupefacente e acidissimo country Loop41 ’Houston. Bisogna ancora fare i conti con Mark E. Smith.
Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.561, gennaio 2004.
New Facts Emerge (Cherry Red, 2017)
Meno male che c’è Wikipedia. Mi viene così risparmiato di contare i lavori in studio pubblicati da questo gruppo di Manchester dacché nel 1979 “Live At The Witch Trials” (che, tanto per chiarire subito anche con un dettaglio la natura di bastian contrario del leader Mark E. Smith, non è dal vivo) ne inaugurò la discografia: “New Facts Emerge” è il trentaduesimo. Ah, ce ne sarebbero anche cinque parte in studio e parte in concerto. Tanto per pareggiare il conto i live sono… trentadue. E poi ci sarebbero – giuro – una quarantina di raccolte (anche con inediti e comunque comode per recuperare una messe di EP e singoli) che, continuando a dare i numeri, sono qualcosa meno dei musicisti passati per le fila della band da quando Mark E. Smith la fondò, nel 1976. Naturalmente basta che ci sia lui, i Fall da sempre sono lui, più chiunque passi da quelle parti, e questo nonostante non si sia mai negato ad apporti compositivi dei gregari. Personaggione pubblico in Gran Bretagna, il nostro uomo, con le sue tirate censorie da punk nel migliore senso etico del termine, o da vecchio bisbetico ed era tale già da giovane, figurarsi adesso che gli anni sono sessanta per la carta di identità e ottanta a scrutarne la faccia rugosa e la dentatura da clochard.
Dopo tutto questo tempo Smith continua sostanzialmente a confezionare lo stesso album e allora perché parlarne? Perché la cosa più pazzesca è che non ne sbaglia uno. Dove si vada a parare con il nuovo è immediatamente chiarito dalla breve litania satanica di Segue. Quanto viene dopo è un profluvio di garage girato punk e innervato di krautrock, da qualche parte fra gli Stooges e i P.I.L via Can, con magari un tocco di funk e uno di Cramps. Peccato per la conclusiva, troppo sgangherata Nine Out Of Ten, che abbassa il voto di mezzo punto.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, settembre 2017.
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2017: il meglio del resto
16) Randy Newman – Dark Matter (Nonesuch)
17) Father John Misty – Pure Comedy (Sub Pop)
18) Wire – Silver/Lead (Pink Flag)
19) Arto Lindsay – Cuidado Madame (Northern Spy)
20) Songhoy Blues – Résistance (Transgressive/PIAS)
21) Thundercat – Drunk (Brainfeeder)
22) Cody ChesnuTT – My Love Divine Degree (One Little Indian)
23) Michael Chapman – 50 (Paradise Of Bachelors)
24) The Dream Syndicate – How Did I Find Myself Here? (Anti-)
25) Ride – Weather Diaries (Wichita)
26) Godspeed You! Black Emperor – Luciferian Towers (Constellation)
27) Four Tet – New Energy (Text)
28) The Feelies – In Between (Bar/None)
29) GospelbeacH – Another Summer Of Love (Alive)
30) Chicano Batman – Freedom Is Free (ATO)
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I migliori album del 2017 (1): LCD Soundsystem – American Dream (DFA/Columbia)
Un sicuro maestro di James Murphy e anzi fra i tanti il principale, ossia David Bowie, il ritiro dalle scene lo annunciava già nel 1973, esattamente trent’anni prima di avviare l’ultima campagna concertistica. Preveggentemente mi consentivo allora un po’ di sano scetticismo, recensendo nel 2010 “This Is Happening”, di fronte al perentorio annuncio con cui si concludeva il comunicato stampa che ne precedeva l’uscita: sarà l’ultimo disco a nome LCD Soundsystem. Mah… Cose che si dicono quando si compiono quarant’anni e la consapevolezza di essere nel mezzo del cammino di una vita spinge a strappi, o come minimo a decisioni simboliche. L’uomo che dal 2002 si cela dietro la riverita sigla i suoi primi quarant’anni li festeggiava tre mesi prima della pubblicazione di quello che per il gruppo era il terzo lavoro in studio e trascorreva molta parte dei successivi undici promuovendolo. Avevamo lasciato gli LCD Soundsystem il 2 aprile 2011, mentre dal palco del newyorkese Madison Square Garden salutavano la folla lì convenuta per il concerto di addio alle scene documentato nel 2012 nel film Shut Up And Play The Hits e nel 2014 nell’addirittura quintuplo (solo in vinile!) “The Long Goodbye”. Non così “long”, se a inizio settembre 2017 abbiamo ritrovato Murphy e soci (gli stessi di sempre; se per tanti aspetti il contesto è quello di una one-man band va rilevato che sotto il profilo compositivo offrono contributi rilevanti) in vetta alle classifiche USA con un album nuovo. Performance apparentemente incredibile per un progetto sulla carta ritagliato per essere per pochi: un gruppo che (parole del leader) “scrive musica il cui argomento è lo scrivere musica” e che fin dal singolo d’esordio del 2002, Losing My Edge, ha fatto della citazione non la pietra d’angolo del suo canone bensì il canone stesso. Decenni di rock, di elettronica, di dance music masticati, digeriti e risputati fuori. Perfetto per critici e intenditori ma… per le masse? Ed è qui che entra in gioco la capacità di scrivere canzoni in grado di andare oltre il pastiche stilistico, subito memorabili per quanto si prestino poi a letture molteplici.
Tutto quanto si ascolta nei 68’38” di “American Dream” è già ascoltato e nondimeno non ci si stanca mai di riascoltarlo. Si tratti di variazioni sul tema tanto sapienti da ricadere nella categoria di grandezza degli originali: i Suicide romantici di Oh Baby; i Joy Division di I Used To; David Bowie che aggiunge con Black Screen un PS a “Blackstar” (che proprio James Murphy avrebbe dovuto produrre; ma rinunciava, limitandosi a un cameo da percussionista). O di incroci fra mashup e inaudito: i Talking Heads alle prese con Secret Life Of Arabia in Other Voices e di nuovo con Fripp alla chitarra in Change Your Mind; gli Psychedelic Furs in collisione con i P.I.L. di Call The Police; i Kraftwerk che si fanno ispirare dal doo wop della traccia omonima. Un lavoro colossale. Un classico istantaneo come fu a suo tempo il debutto “LCD Soundsystem”.
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I migliori album del 2017 (2): Benjamin Biolay – Volver (Barclay)
La Francia è vicina, dietro l’angolo, ma la Francia per noi italiani è lontanissima e meno male che sarebbero i francesi quelli sciovinisti. Per certo non è così se è di pop che si parla e fa testo la devozione che nutrono oltralpe per Paolo Conte, o che là Gianmaria Testa fosse ben più noto che qui, o ancora l’ottima stampa di cui godeva Pino Daniele. Mentre nel Bel Paese un gigante come Serge Gainsbourg è ancora sempre e soltanto quello di Je t’aime… moi non plus e questo già per un pubblico mediamente avvertito. Chi lo conosce un po’ meglio, spesso ci è arrivato per tramite di Mick Harvey, figurarsi. Ecco: se ancora Gainsbarre dalle nostre parti è uno a malapena orecchiato, come stupirsi del fatto che chi ne ha raccolto l’eredità resti un quasi perfetto sconosciuto? Benché un po’ di italiano ci sia in lui, già consorte (non più) di Chiara Mastroianni. Benché nel 2005, all’altezza di quell’altro mezzo capolavoro di “À l’origine”, la Virgin ci avesse investito abbastanza in promozione. Emulo dichiarato – esordiva nel 2002 con un concept, “Rose Kennedy”, ispirato a “Histoire de Melody Nelson” – di cotanto maestro, l’oggi quarantacinquenne Benjamin Biolay lo ha ormai eguagliato in tutto o quasi: nell’essere personaggio a 360° e chiacchierato (d’accordo: meno del depravato nume); nell’estro; nella capacità di fare rientrare il mondo sotto l’ombrello della chanson; nella propensione a circondarsi di donne splendide, incluse alcune che frequentarono pure Serge, e spesso a duettare con loro. Con una discografia in ogni senso di grande consistenza (questo l’undicesimo lavoro in studio) e di qualità media spettacolare, si potrebbe essere blasfemi e azzardare che sul lungo corso possa addirittura superarlo. Se in patria è una superstar che colleziona dischi di platino, oltre Manica e oltre Atlantico almeno è un personaggio “di culto”, in attesa di azzeccarlo lui un singolo (magari scandalosamente) epocale.
Ispirato come il precedente “Palermo Hollywood” dal sobborgo di Buenos Aires in cui da dieci anni il titolare passa la più parte del suo tempo, “Volver” non ha cambiato la situazione, nonostante Encore encore, vertiginoso disco-rock con un inserto rap a due voci (l’altra quella della Mastroianni) che lo rende ancora più Blondie, avesse il potenziale per risuonare dalle radio a ogni latitudine. Sarà per un’altra volta? Per intanto non si può che abbozzare e applaudire, stupefatti dalla forza di un programma senza un cedimento lungo quindici tracce e un’ora. Ogni brano un centro. Dalla cinematica ballata omonima che lo apre, inondata di archi struggenti, a una Hollywood Palermo che lo suggella tropicale se non tropicalista, andando dietro a una Avec le temps (da Léo Ferré) trasformata dal nostro uomo in una sua My Way. Citazioni sparse dal favoloso resto: una Mala siempre fra Cuba e Giamaica; il valzer alla Leonard Cohen La mémoire; il Nino Rota girato disco di Roma (amoR) e il Morricone che invece lo stesso di L’alcool, l’absence; la ballata pianistica Arrivederci; due canzoni a irresistibile ritmo di cumbia, Ça vole bas e Pardonnez-moi, che avrebbe potuto scrivere il miglior Manu Chao prima di diventare una macchietta.
Ci sono un sacco di voci femminili in “Volver”. A risuonare – piana – in Happy Hour quella di Catherine Deneuve. Ex-suocera e che gli vuoi dire a uno così? Dategli una possibilità, a Benjamin Gainsbourg.
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I migliori album del 2017 (3): Algiers – The Underside Of Power (Matador)
Dicono che oggi sia impossibile, nel rock, inventarsi un qualcosa di almeno parzialmente inaudito. Dicono che non si possa più stupire. Non ditelo agli Algiers. Nessuno deve averli informati e se “The Underside Of Powers” non sta in cima a questa lista è solo perché nel 2015 avevano pubblicato un omonimo predecessore che già quello faceva: rimodernava un canone definitivamente assurto a un suo classicismo non più tardi dei primi ’90 (d’altra parte: notevole che ci abbia messo buoni quarant’anni) e che dopo ha vissuto di rimescolamenti, più che di ulteriori allargamenti. In senso strettissimo pure il quartetto formalmente di Atlanta – ma disperso fra la città della Georgia, New York e Londra – gioca mischiando un mazzo di carte ciascuna delle quali singolarmente già vista ma, seriamente, qualcuno aveva mai fantasticato di spedire i P.I.L. del “Metal Box” a risciacquare il loro post-punk già molto post-rock nelle fangose acque del Mississippi? Se la new wave non si fece certo mancare di giocare con elementi black fu con il funk più spigoloso e il jazz della New Thing che pasticciò (con la disco, il reggae, il dub), mica con il soul o il gospel. No, un album come “Algiers” non l’avevamo mai ascoltato ed ecco, l’unico addebito che si può muovere a un successore che assolutamente lo vale è che è venuto a mancare l’effetto sorpresa. A parte un batterista, che comunque un minimo i termini del discorso li sposta e ridefinisce, nulla aggiunge.
Ma davvero? Per certo dall’industrial funk dell’iniziale Walk Like A Panther al gospel post-punk di The Cycle/The Spiral/Time To Go Down, che una quarantina di minuti dopo chiude le spastiche danze, non ci si annoia mai e valga come paradigma dell’opera tutta una A Hymn For An Average Man che si porge in forma di valzer e si evolve in una sorta di incubotico, dissonante prog. Due miei personali apici: lo spiritual girato gotico Cleveland; l’ultracinematografica e orrorosa Plague Years. Ammiccano a dj coraggiosi i Suicide che incontrano i Temptations della traccia omonima e una Death March che sa di Depeche Mode.
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I migliori album del 2017 (4): Slowdive – Slowdive (Dead Oceans)
In un’intervista concessa a Simon Reynolds a inizio 2014 Neil Halstead assumeva a scopo degli Slowdive il creare “una grandiosa bellezza senza tempo”. Non stava declinando il discorso al passato, come sarebbe stato fino a pochi mesi prima visto che sia l’ultima uscita discografica che l’ultimo concerto del gruppo datavano diciotto anni, risalendo al 1995. Bensì al futuro, giacché il quintetto di Reading si era appena rimesso insieme e oltretutto nella formazione originale, con dietro la batteria Simon Scott e non quel Ian McCutcheon che aveva suonato in “Pygmalion”, per poi trasmigrare insieme a Neil Halstead e Rachel Goswell nei me-ra-vi-glio-si Mojave 3. A proposito: costoro non pubblicano nulla dal 2006 e nulla si è saputo delle canzoni cui Halstead dichiarò nel 2011 che stavano lavorando. È lecito sperare e sognare che, nel momento in cui questa seconda vita degli Slowdive dovesse esaurirsi, toccherà di nuovo a loro, Neil e Rachel sempre in coppia ma con gli amplificatori spenti o a volume basso. Di quello straordinario folk-pop – tipo dei Beach Boys capitanati da Nick Drake e intenti a lanciare un ponte fra i tardi Beatles e Simon & Garfunkel – personalmente provo molta nostalgia. Ma un po’ meno adesso.
Come se non fosse passato un giorno? Non è così. “Pygmalion” chiudeva la stagione in ogni senso ruggente di quello shoegaze che (casualmente o no dirimpettaio britannico del grunge) aveva avvolto la polpa di melodie insidiose in una scorza di feedback spessa come mai nella storia del pop, rimediando indifferenza dal pubblico (#108 nella classifica UK) e pernacchie dalla critica. Non meritando né la prima né le seconde. “Slowdive” ha viceversa ramazzato vendite apprezzabili e recensioni entusiastiche meritando queste e quelle. Ma lo stacco è pure stilistico: piuttosto che ripartire dal sound sperimentale e radente la ambient del non più congedo, Halstead e soci sono tornati a quello fragorosamente estatico – con modi e respiro diversi – di “Just For A Day” (1991) e “Souvlaki” (1993). Album (ri)valutati come classici quando ha preso a impazzare, sul finale del primo decennio del secolo nuovo, quel dream pop che dello shoegaze è una riedizione esangue.
È di inventori che si parla e non vale dunque lamentarsi che in senso stretto qui non si ascolta niente di nuovo. Più sensato applaudire chi non si è limitato al compitino – tutt’altro! -, nell’ampio arco con agli estremi la travolgente, gioiosa e addirittura innodica (la loro cosa più esuberante di sempre) Star Roving e l’ipnotica ballata pianistica Falling Ashes. Ciò che sta in mezzo sono i Cocteau Twins se fossero stati dei Sonic Youth influenzati (oh, Lui c’è sempre) da Brian Wilson.
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I migliori album del 2017 (5): The Magnetic Fields – 50 Song Memoir (Nonesuch)
Forse Stephin Merritt dovrebbe eliminare tutto il resto: gli album anche formalmente da solista quando è chiaro che ogni suo album è un album da solista; quelli a nome The 6ths (OK, è una ragione sociale che non usa dal 2000); quelli come Gothic Archies; quelli dei Future Bible Heroes. E forse pure gli album “normali” dei Magnetic Fields: tipo i sei che precedevano “69 Love Songs” e i quattro che gli erano andati dietro prima di questo. Sia chiaro: non c’è niente che non vada nei Belle & Sebastian cresciuti a Randy Newman di “i” (2004), nella ricreazione dei primi Jesus And Mary Chain inscenata in “Distortion” (2008), nel folk indeciso se guardarsi indietro o divenire folk-rock di “Realism” (2010), nella riscoperta di quei sintetizzatori che per qualche tempo aveva finto di sdegnare alla base di “Love At The Bottom Of The Sea” (2012). È solo che sono lavori per l’appunto “normali”, per disegno e durata: più o meno apprezzabili, più o meno ispirati, più o meno dimenticabili. Laddove le “69 canzoni d’amore” non potevano lasciare indifferenti. Recensendo quello che prima di questo era l’ultimo album a nome Magnetic Fields del nostro uomo scrivevo: “A tredici anni dacché pubblicò il suo capolavoro ancora deve farci i conti e l’impressione è che fra altri tredici, ventisei, trentanove, e insomma finché vivrà e pure dopo, sarà sempre così. Non potrebbe sfuggire a tale agrodolce destino nemmeno offrendo una replica, con un altro affresco al pari policromo e ispirato di pop post-moderno capace di racchiudere in sé dal Brill Building ai Suicide: sconterebbe comunque il fatto di essere il secondo”. Ma la sapete una cosa? Ho cambiato idea. Un po’. Naturalmente “50 Song Memoir” un minimo paga dazio all’arrivare secondo: opera quasi al pari monumentale (cinquanta tracce contro sessantanove, due ore e mezza contro quasi tre) e concettuale (qui ogni canzone racconta un anno nella vita dell’autore, che ci metteva mano nel giorno del suo cinquantesimo compleanno e ha impiegato due anni a completarla), se una cosa testimonia, secondo me, è proprio l’impossibilità per Merritt di essere un artista “normale”. Evidentemente a suo agio e al suo massimo soltanto in contesti così… smisurati. Nonostante il suo sia un pop in bassa fedeltà, “da cameretta”.
Allora forse Stephin Merritt dovrebbe concentrarsi soltanto su progetti simili, inauditi per concetto e ambizione. Non metterebbe diciotto anni fra questo e quello e non ci permetterebbe mai di dimenticarci che un altro che scrive musiche così – un po’ un Elvis Costello senza la tigna punk, un po’ da novello Bacharach a suo agio con la disco e il techno-pop; e un po’ Tom Waits – in giro non c’è.
“Il rock’n’roll ti rovinerà la vita e ti renderà triste”, declama a un certo punto. Facendolo sembrare un magnifico destino, come il Nick Hornby che in Alta fedeltà si domandava: “Ascoltavo musica pop perché ero un infelice, o ero infelice perché ascoltavo musica pop?”.
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