Forse Stephin Merritt dovrebbe eliminare tutto il resto: gli album anche formalmente da solista quando è chiaro che ogni suo album è un album da solista; quelli a nome The 6ths (OK, è una ragione sociale che non usa dal 2000); quelli come Gothic Archies; quelli dei Future Bible Heroes. E forse pure gli album “normali” dei Magnetic Fields: tipo i sei che precedevano “69 Love Songs” e i quattro che gli erano andati dietro prima di questo. Sia chiaro: non c’è niente che non vada nei Belle & Sebastian cresciuti a Randy Newman di “i” (2004), nella ricreazione dei primi Jesus And Mary Chain inscenata in “Distortion” (2008), nel folk indeciso se guardarsi indietro o divenire folk-rock di “Realism” (2010), nella riscoperta di quei sintetizzatori che per qualche tempo aveva finto di sdegnare alla base di “Love At The Bottom Of The Sea” (2012). È solo che sono lavori per l’appunto “normali”, per disegno e durata: più o meno apprezzabili, più o meno ispirati, più o meno dimenticabili. Laddove le “69 canzoni d’amore” non potevano lasciare indifferenti. Recensendo quello che prima di questo era l’ultimo album a nome Magnetic Fields del nostro uomo scrivevo: “A tredici anni dacché pubblicò il suo capolavoro ancora deve farci i conti e l’impressione è che fra altri tredici, ventisei, trentanove, e insomma finché vivrà e pure dopo, sarà sempre così. Non potrebbe sfuggire a tale agrodolce destino nemmeno offrendo una replica, con un altro affresco al pari policromo e ispirato di pop post-moderno capace di racchiudere in sé dal Brill Building ai Suicide: sconterebbe comunque il fatto di essere il secondo”. Ma la sapete una cosa? Ho cambiato idea. Un po’. Naturalmente “50 Song Memoir” un minimo paga dazio all’arrivare secondo: opera quasi al pari monumentale (cinquanta tracce contro sessantanove, due ore e mezza contro quasi tre) e concettuale (qui ogni canzone racconta un anno nella vita dell’autore, che ci metteva mano nel giorno del suo cinquantesimo compleanno e ha impiegato due anni a completarla), se una cosa testimonia, secondo me, è proprio l’impossibilità per Merritt di essere un artista “normale”. Evidentemente a suo agio e al suo massimo soltanto in contesti così… smisurati. Nonostante il suo sia un pop in bassa fedeltà, “da cameretta”.
Allora forse Stephin Merritt dovrebbe concentrarsi soltanto su progetti simili, inauditi per concetto e ambizione. Non metterebbe diciotto anni fra questo e quello e non ci permetterebbe mai di dimenticarci che un altro che scrive musiche così – un po’ un Elvis Costello senza la tigna punk, un po’ da novello Bacharach a suo agio con la disco e il techno-pop; e un po’ Tom Waits – in giro non c’è.
“Il rock’n’roll ti rovinerà la vita e ti renderà triste”, declama a un certo punto. Facendolo sembrare un magnifico destino, come il Nick Hornby che in Alta fedeltà si domandava: “Ascoltavo musica pop perché ero un infelice, o ero infelice perché ascoltavo musica pop?”.
Forse la prima volta che una posizione della tua Top 5 coincide con la mia!
Per festeggiare, ricordiamo anche lui:
Be’, no, era già successo lo scorso anno, con David Bowie (disco del 2016 per entrambi). E – hai visto mai? – potrebbe succedere ancora.