I migliori album del 2017 (4): Slowdive – Slowdive (Dead Oceans)

In un’intervista concessa a Simon Reynolds a inizio 2014 Neil Halstead assumeva a scopo degli Slowdive il creare “una grandiosa bellezza senza tempo”. Non stava declinando il discorso al passato, come sarebbe stato fino a pochi mesi prima visto che sia l’ultima uscita discografica che l’ultimo concerto del gruppo datavano diciotto anni, risalendo al 1995. Bensì al futuro, giacché il quintetto di Reading si era appena rimesso insieme e oltretutto nella formazione originale, con dietro la batteria Simon Scott e non quel Ian McCutcheon che aveva suonato in “Pygmalion”, per poi trasmigrare insieme a Neil Halstead e Rachel Goswell nei me-ra-vi-glio-si Mojave 3. A proposito: costoro non pubblicano nulla dal 2006 e nulla si è saputo delle canzoni cui Halstead dichiarò nel 2011 che stavano lavorando. È lecito sperare e sognare che, nel momento in cui questa seconda vita degli Slowdive dovesse esaurirsi, toccherà di nuovo a loro, Neil e Rachel sempre in coppia ma con gli amplificatori spenti o a volume basso. Di quello straordinario folk-pop – tipo dei Beach Boys capitanati da Nick Drake e intenti a lanciare un ponte fra i tardi Beatles e Simon & Garfunkel – personalmente provo molta nostalgia. Ma un po’ meno adesso.

Come se non fosse passato un giorno? Non è così. “Pygmalion” chiudeva la stagione in ogni senso ruggente di quello shoegaze che (casualmente o no dirimpettaio britannico del grunge) aveva avvolto la polpa di melodie insidiose in una scorza di feedback spessa come mai nella storia del pop, rimediando indifferenza dal pubblico (#108 nella classifica UK) e pernacchie dalla critica. Non meritando né la prima né le seconde. “Slowdive” ha viceversa ramazzato vendite apprezzabili e recensioni entusiastiche meritando queste e quelle. Ma lo stacco è pure stilistico: piuttosto che ripartire dal sound sperimentale e radente la ambient del non più congedo, Halstead e soci sono tornati a quello fragorosamente estatico – con modi e respiro diversi – di “Just For A Day” (1991) e “Souvlaki” (1993). Album (ri)valutati come classici quando ha preso a impazzare, sul finale del primo decennio del secolo nuovo, quel dream pop che dello shoegaze è una riedizione esangue.

È di inventori che si parla e non vale dunque lamentarsi che in senso stretto qui non si ascolta niente di nuovo. Più sensato applaudire chi non si è limitato al compitino – tutt’altro! -, nell’ampio arco con agli estremi la travolgente, gioiosa e addirittura innodica (la loro cosa più esuberante di sempre) Star Roving e l’ipnotica ballata pianistica Falling Ashes. Ciò che sta in mezzo sono i Cocteau Twins se fossero stati dei Sonic Youth influenzati (oh, Lui c’è sempre) da Brian Wilson.

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