Erano tempi in cui molti come lui cantavano i Beatles e i Rolling Stones, ma nessuno con un’intensità paragonabile. Soprattutto, nessuno “riportando tutto a casa”: facendone emergere prepotentemente la negritudine, rivendicandola nell’esatto istante in cui sconfinava, per mai più tornarci, dal doppio ghetto del pubblico afroamericano infiltrato, su entrambe le sponde dell’Atlantico, dal bianco hipster. Con la sorridente arroganza dei suoi venticinque anni Otis i Beatles e i Rolling Stones andava a cantarli a casa loro, al londinese Finsbury Park Astoria, e quel magico 17 marzo 1967 il teatro quasi veniva giù durante una Day Tripper e una (I Can’t Get No) Satisfaction separate/unite da una Fa-Fa-Fa-Fa-Fa più che mai in contrasto con il sottotitolo di Canzone triste. Qui ci sono le prove e non si sa se applaudire o commuoversi, ballare o bestemmiare il destino cinico e baro. Quattro sere dopo, al parigino Olympia costituiva ulteriore cuscinetto una These Arms Of Mine infinitamente struggente, ma con un nucleo di esultanza al centro. Fortunato chi c’era. Noi dobbiamo accontentarci e pure ringraziare che queste registrazioni, per quattro abbondanti decenni disperse fra uscite ufficiali di basso profilo e collezioni private di nastri, vinili, CD abusivi, vedano infine la luce con ogni crisma, una qualità tecnica apprezzabile, le scalette complete e nel giusto ordine di quegli spettacoli – apice e suggello della “Stax Volt Revue” – mitici come pochi.
Naturalmente sono tante le ripetizioni e alle diciassette tracce in programma in “Live! In London And Paris” finiscono per corrispondere dieci canzoni appena. Era un’altra epoca – cruciale momento di passaggio per il rock dall’adolescenza all’età adulta, nel mentre il soul era nel pieno della sua Età dell’Oro e si apprestava pur’esso a una metamorfosi – e lo showbiz stentava ad adeguarsi, i concerti faccende al più di mezz’ora, i tour di nomi singoli ancora più inconcepibili che non eccentrici. Otis era al centro di una rivoluzione cui un altro nero destinato a morire troppo presto e con il quale avrebbe da lì a poche settimane diviso il palco del “Monterey International Pop Festival”, Jimi Hendrix, avrebbe offerto un contributo decisivo. Lo si dimentica troppo spesso. Abbagliati da un repertorio straordinario, ci si scorda tanto questo quanto il fatto che morì non all’apogeo della fama bensì quando stella vera si apprestava a diventarlo, i successi precedenti nella classifica pop americana e in quelle europee robetta a fronte di una leggenda sbocciata post mortem. Chissà cosa ci avrebbe regalato ancora non fosse volato giù – e via – a ventisei anni, tre mesi, un giorno.
Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.651, ottobre 2008.