Il lettore mi perdonerà ma… “Il giovane e dotato compositore, arrangiatore e critico Bill Mathieu ha scritto una volta di Gil Evans: ‘La mente vacilla dinnanzi alla complessità dei suoi arrangiamenti e delle sue composizioni. A tal punto gli spartiti sono accurati, formalmente ben costruiti e attenti alla tradizione che ti viene da pensare che gli originali andrebbero preservati sotto vetro in un museo fiorentino’. (…) Ma cosa rende unico il lavoro di Evans? È impossibile da esprimere a parole e tuttavia, contando sulla vostra indulgenza, ci proverò, non rivolgendomi al musicista professionista bensì all’incolto; i professionisti sono invitati a saltare i prossimi paragrafi. Ogni ‘canzone’ è costituita da due componenti primarie: melodia e armonia. Il ritmo è il terzo degli elementi principali, ma qui desidero limitarmi ai primi due. Quando una melodia è suonata una certa sequenza di accordi scorre sotto di essa e le note più basse di questi accordi disegnano una sorta di seconda melodia a sé stante. È la cosiddetta ‘linea di basso’ e nella costruzione di una trama e nella definizione di un gusto musicale ha una notevole rilevanza. Un primo passo per apprezzare l’arte di Gil Evans è cercare di non seguire la melodia ma piuttosto la linea di basso in alcuni di questi brani. Fra la nota bassa e quella melodica si situano le restanti che formano un accordo. Puoi sistemarle a casaccio, in modo tale che non avrai che degli accordi messi in fila, come dei pali del telefono fra i quali è teso il filo della melodia; oppure puoi unire le note interne di un accordo a quelle del successivo, creando ulteriori melodie dentro la musica. Queste nuove linee sono chiamate le ‘voci interiori’ dell’armonizzazione e come le tratta è uno dei modi di misurare l’abilità di un compositore o di un arrangiatore. Ebbene: la maniera che ha Evans di maneggiarle è spesso stupefacente. La melodia di base, la linea di basso, le voci interiori sono puntualmente squisite. Il risultato è che un suo spartito può essere grossomodo paragonato a uno schema di parole crociate: può essere letto sia in verticale, seguendo gli accordi, che in orizzontale, andando dietro alle diverse melodie. Fate l’una e l’altra cosa insieme e potreste restare senza fiato”.
Il lettore mi perdonerà per avere questo mese preso in prestito da altri quasi metà del testo della rubrica, ma le note che Gene Lees vergò nel 1964 per l’album “The Individualism Of Gil Evans” mi sono parse così precise e illuminanti e insomma meglio di qualunque cosa avrei potuto scrivere io che, ubi maior…, non ho resistito alla tentazione di citarle estesamente. Lees prosegue appuntando che un’altra parte fondamentale del fascino della musica di Evans è il fatto che usi nell’ambito del jazz strumenti, il corno francese su tutti, usualmente non adoperati e si diffonde, prima di passare a descrivere le cinque tracce che danno vita al 33 giri, sulla inclassificabilità di una musica che l’autore, con grande modestia, rubricava alla voce “popolare”. In tal caso fra la più raffinata e poetica del Novecento. Fa fede una scrittura di una tale fluidità e naturalezza, pur nella complessità estrema, che si scambiano per improvvisate parti che furono rifinite in ogni dettaglio a tavolino. Fa fede il lavoro con Miles Davis, le rivoluzionarie discussioni e intuizioni che contribuirono alla “nascita del cool” (del Nostro gli arrangiamenti di “Moondreams” e “Boplicity”) e poi la cruciale trilogia “Miles Ahead”/“Porgy And Bess”/“Sketches Of Spain”, più mezzo “Quiet Nights”, un epocale concerto alla Carnegie Hall, “Filles De Kilimanjaro”. Fa fede la maniera in cui Evans, a partire dai primi ’70, prese a integrare nelle sue composizioni strumenti elettrici ed elettronici e che meraviglia le sue riletture – orchestrali – di Jimi Hendrix, le uniche degne di nota che chiunque abbia mai dato dell’opera del chitarrista di Seattle. Stranissima quanto straordinaria carriera la sua: già quarantenne quando, nel 1952, cominciava a suonare il piano professionalmente, semisconosciuto fino al 1957, di rado leader fino ai tardi ’60, poche le esibizioni in pubblico fino all’inizio del decennio successivo quando, sessantenne, prendeva a concedersi più sovente e l’attività concertistica sarebbe stata da allora fittissima e non più, come in precedenza, un evento i dischi. Solo la morte lo avrebbe fermato, nel 1988, poco meno che settantaseienne: l’anziano più giovane nella testa e curioso che abbia mai frequentato palchi e sale di incisione.
Ammetto di non essere un esperto di Gil Evans. Naturalmente conosco e amo tutto quanto combinato da complice del Divino Miles. Altrettanto ovviamente ho frequentato le rivisitazioni hendrixiane e – spesso – quel “Out Of The Cool” puntualmente in lista ogni volta che si redigono elenchi di pietre miliari del jazz. Ma prima che Sound And Music, distributore italiano della tedesca Speakers Corner cui dobbiamo questa ristampa magnificamente suonante (sublimi il nitore e i colori del piano, una meraviglia certi intrecci fiatistici di cui si coglie ogni sfumatura) di “The Individualism Of”, me lo facesse avere non avevo mai ascoltato l’album in questione. E davvero sono rimasto – cito di nuovo Lees – “senza fiato” dinnanzi a una felpata e notturna The Barbara Song (da “L’opera da tre soldi” di Brecht e Weill), a un Las Vegas Tango che è in realtà un blues in transito dal sornione al melò e a una Hotel Me che invece pure. A una El toreador in fuga dall’oleografia verso l’ineffabile. È classica? È jazz? È musica incredibile e non saprei se dirmi più felice, dopo quasi trent’anni che faccio girare dischi, di riuscire a trovarne ancora di inedita per me o infuriato per la brevità di questa porca vita che mi impedirà di assaporare tutta quella che vorrei. Viviamo nell’ignoranza e, quel che è peggio, ci moriamo.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.264, gennaio 2006.
La lettura di questo articolo è arricchente anche senza ascoltare una sola nota. Mi levo il cappello.
E’ un disco bellissimo anche se a uno non piace il jazz. Anzi, magari è un buon inizio per una favolosa storia d’amore…
Meglio tardi che mai! Ognuno segue i suoi percorsi e mi fa piacere che anche tu, dopo tutta la musica che hai sentito, abbia scoperto questa meraviglia. Ti consiglio anche Guitar Forms di Kenny Burrell arrangiato da Evans (stessa epoca e casa discografica di The Individualism): contiene momenti sublimi. E grazie per avermi fatto venire voglia di risentirlo!
Grazie a te per la dritta.
Un altro Venerato Maestro, Baudelaire, raccontava che l’ arte è lunga e la vita breve. Se penso al tempo dissipato in mediocri ascolti – ma sono serviti anche quelli… Confidando nel ciclo delle reincarnazioni intanto auguro a Eddy Cilia una vita lunga e proficua di ascolti, di modo che, se non gli spiace, oltre che Venerato sia anche Venerando. Grazie per l’ articolo illuminante e un poco “irritante”, perché adesso si vorrebbe ascoltare ogni nota e frammento di Gil Evans, in una pigra e svogliata domenica ma tocca rimandare.
Non mi ricordo chi lo ha scritto, ma da qualche parte ho letto una cosa del tipo “i libri brutti servono ad apprezzare meglio quelli belli”. Vale anche per i dischi, assolutamente sì.
E’ vero, ma non si deve leggerne troppi. Ho tentato sovente di farmi piacere dischi che non mi piacevano, per giustificare l’ acquisto e il tempo speso nell’ ascolto. Adesso vengono accantonati senza pietà, li metto da parte in attesa di trovare qualcuno cui donarli con insana malevolenza.