Giusto una volta Eminem aveva fatto aspettare di più un album e accadeva quando metteva quattro anni e mezzo fra “Encore” (2004) e “Relapse” (2009). Con i ventitré milioni di copie venduti dal primo (pur poca roba rispetto ai trenta di “The Eminem Show” e ai trentacinque di “The Marshall Mathers LP”!), poteva permetterselo. “Revival” arriva a quattro anni e un mese da “The Marshall Mathers LP 2” (quasi un flop: “appena” nove milioni di copie) e diciamo che se si fosse fatto attendere la metà e durasse la metà, o poco più, sarebbe stato meglio. 77’45”: un’enormità, se non ci si ricorda che la concisione non è mai stata fra le caratteristiche del nostro uomo, con lavori che hanno immancabilmente girato intorno all’ora e un quarto, unica e lontana (1999) eccezione “The Slim Shady LP”, che in ogni caso sfiorava l’ora. Ma insomma e comunque troppo, perché per reggere un simile minutaggio ci vorrebbero basi più variegate, incisive, originali – e neanche nella sua età artisticamente aurea Eminem ha mai brillato in tal senso – e un rapping capace di differenziarsi un minimo dalle sue due sole modalità: incazzato e più incazzato. Il difetto capitale del disco (uno dei difetti capitali di costui) è che quasi sempre si segue il medesimo schema: partenza lenta, rabbia che monta fino a esplodere, un gancio vocale innodico e via. Ripetuto per settantasette minuti non ti fa arrivare vivo alla fine.
Altro difetto di “Revival”: piazza subito la canzone migliore – Walk On Water: bel motivo pianistico e al canto una Beyoncé smagliante – e poi non può essere che discesa (un po’ si replica con Like Home e Alicia Keys). Né gli giovano certi campionamenti banalotti: Joan Jett in Remind Me, i Cranberries in In Your Head. Bene la misoginia a un minimo storico ma, a quarantacinque anni, era ora.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.395, gennaio 2018.