Il fracasso da un altro mondo di Glenn Branca (6 ottobre 1948-13 maggio 2018)

Era musica colta? Discendeva indubbiamente da certo minimalismo. Era rock’n’roll? Ne utilizzava gli strumenti e, nell’approccio viscerale a materiale cerebralissimo, evidenziava un medesimo sentire. Quanto crearono Glenn Branca e i suoi primi accoliti all’alba degli anni ’80 suonava allora alle orecchie dei più come un minaccioso fracasso da un altro mondo. Che diamine! Suona tuttora così.

The Ascension (99, 1981)

Nessuno in America era pronto per questa musica. E tuttora molti non sono pronti a riconoscerne l’importanza”: così Lee Ranaldo, che i più conoscono per la militanza nei Sonic Youth. Sa bene di cosa sta parlando, giacché era uno dei sei (formazione tascabile rispetto alle orchestre di chitarre che si troverà in seguito a condurre il leader) che nel 1980 portarono queste composizioni fragorose e incandescenti a spasso per Stati Uniti ed Europa e l’anno dopo le radunarono in un album storico e isterico. Registrato ai Power Station, nientemeno, gli stessi studi dove non molto prima la E Street Band aveva impresso su nastro “The River”, ma non precisamente con gli stessi risultati visto che non vi era tecnico del suono che fosse in grado di riprendere al meglio una musica che del rock aveva gli strumenti e l’attitudine ma per il resto ne era lontana: cresciuta in una New York che non esiste più dove, accontentandosi di poco, una folta e varia comunità artistica poteva sopravvivere accampata nei vasti spazi dei loft per un pugno di dollari. Glenn Branca ne fu il portabandiera. C’erano dentro i Velvet estremi di Sister Ray e l’estremizzazione di quei Velvet estremi attuata da Lou Reed in “Metal Machine Music”, c’era uno spirito punk, c’era la lezione minimalista di Steve Reich e La Monte Young. C’erano quattro chitarre elettriche, un basso, una batteria.

Sebbene penalizzato da un’incisione che non ne rende che in minima parte la densità di cui riferisce chi c’era, così che anche a volumi esagerati tocca lavorare di immaginazione, “The Ascension” vibra e ondeggia e si impenna, magma che lascia senza fiato soprattutto a fronte della composizione omonima, lenta costruzione di un terrificante muro di suono, ma appena di meno con i grattuggiamenti di Lesson No. 2, con le sospensioni industrial di The Spectacular Commodity, con il rock metallurgico di Structure, con la motoristica ossessione di Light Field (In Consonance). Un bonus per questa ristampa Acute lungamente attesa: buttando il dischetto nel computer potrete gustarvi due minuti in video di Branca in assolo nel 1978. Si potrebbe dirlo hendrixiano, non fosse che Hendrix al confronto pare Paco De Lucia.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.551, 21 ottobre 2003.

Symphony No.5 (Atavistic, 1995)

Glenn Branca è uno che fa fine citare: si rileva l’influenza esercitata sui Sonic Youth (due dei quali, Ranaldo e Moore, hanno collaborato con lui in più di un’occasione) e si parla, con reverenza e giocoforza (vista la latitanza di documenti sonori) per partito preso, dell’importanza che ebbero gruppi come Theoretical Girls e Statics nella breve stagione della no wave newyorkese. Ascoltarlo, è un altro paio di maniche: vuoi per la sua fama di compositore ostico che scoraggia i più, vuoi perché i suoi dischi, anche post-no wave, non sono di quelli che si trovano al supermercato. Se siete fra quanti finora hanno predicato bene e razzolato male, la ripubblicazione da parte dell’italiana New Tone della sua Quinta Sinfonia (per rumorosa orchestrina di sette chitarre, due tastiere, due bassi e batteria) è un’occasione preziosa per sgombrare il campo dai pregiudizi.

Cercare di convincervi che “Symphony No. 5”, la cui registrazione risale al 1984, è opera di facile ascolto sarebbe fuori luogo: non lo è. È però, oltre che parecchio interessante, a suo modo godibile, soprattutto nelle parti più meditative (il primo movimento) e/o solenni (il sesto e ultimo). Si può fruirla come musica ambientale, a volume dunque molto basso, oppure, per la gioia dei vicini, tentando di ricreare fra le mura domestiche la paralizzante pressione sonora dell’esecuzione originale.

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up” n.1, giugno/luglio 1997.

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