Il 1° luglio 1998 il carrozzone esilarante e commovente del Buena Vista Social Club arrivava alla Carnegie Hall. Dieci anni e tre mesi più tardi un doppio CD documenterà integralmente una notte da mito di cui il film di Wim Wenders non aveva potuto, giocoforza, che regalare qualche fulminante estratto.

“Lo considero il migliore disco nel quale io abbia mai suonato, un apice insuperabile per la mia personale vicenda artistica. E mi sento come se tutto quanto lo ha preceduto non sia stato che una preparazione per questa esperienza”: così Ry Cooder alla BBC nel 1997, poco prima che “Buena Vista Social Club” l’album arrivasse nei negozi. “È stato come se tutti i geni uscissero a un tratto dalla lampada”: a parlare è ancora il chitarrista e produttore, dopo la serata newyorkese di cui sopra. “Essere testimone di un momento eccezionale in vite a loro volta eccezionali è stato un privilegio grandissimo, nonché un piacere indescrivibile”, ricorda il regista di Buena Vista Social Club il documentario. Mentre Nick Gold, il discografico che diede l’imprimatur all’operazione, sottolinea che “fu un qualcosa di unico, imprevedibile, irripetibile”. E aggiunge: “Naturalmente eravamo consci di avere realizzato un album speciale, ma nessuno di noi si sarebbe mai aspettato un simile impatto”. Il timbalero Amadito Valdés, collaboratore principe del pianista Rubén González dopo avere svolto lo stesso ruolo fra gli altri con Paquito D’Rivera, si interroga tuttora sulle ragioni e i meccanismi di un successo clamoroso. E la sua risposta è che un segreto non c’è, o per meglio dire c’è ma è sotto gli occhi di tutti: “Buena Vista Social Club” piacque e continua a piacere così tanto perché nacque e si sviluppò senza intenti commerciali. L’unico scopo era rimettere agli onori delle cronache artisti grandi quanto dimenticati, portarli di nuovo su un palco: e chi mai avrebbe potuto pronosticare che la ribalta sarebbe stata una delle più prestigiose al mondo? Né la Carnegie Hall era un gran finale, piuttosto uno stimolo a proseguire l’avventura guadagnando, se possibile, in slancio ed entusiasmo. A pensarci, ovviamente immalinconisce che l’urgenza non fosse quella che dà di norma la gioventù bensì l’opposto, una consapevolezza di mortalità che non poteva non permeare gente che non è più fra noi e aveva al tempo novantun anni (Compay Segundo), ottantuno (Pio Leyva), settantanove (Rubén González), settantuno (Manuel Licea e Ibrahim Ferrer). Invano però cercherete – nelle bellissime immagini di Wenders, nel “Buena Vista Social Club” in studio come in questo “nuovo” “At Carnegie Hall” – del magone nel magico: anche nei momenti più toccanti – il preferito di Wenders probabilmente il preferito di chiunque: quando alla fine del duetto in Silencio Ferrer asciuga le lacrime che Omara Portuondo non ha più trattenuto – c’è un senso intimo di trionfo che fa esultare. Dispiace, allora, che non tutti coloro che parteciparono al concerto newyorkese siano vissuti abbastanza da vederlo diventare un doppio album e il capitolo conclusivo della pazzesca saga, ma nel contempo conforta il pensiero che dopo la Carnegie Hall si siano tolti tante soddisfazioni ancora. Ad esempio un trionfale spettacolo torinese, nell’estate 2000, di fronte a oltre dodicimila persone (c’ero; invidiatemi). Ad esempio un tot di lavori solistici (tre Ibrahim, due Rubén) acclamati quasi quanto il capostipite della formidabile genìa. Non altrettanto venduti ma i miracoli succedono una volta, quando succedono. O no? In questo racconto, di prodigi se ne contano minimo due.
Il primo? Cominciava tutto per caso e a causa di una burocrazia per una volta benedetta. Marzo 1996, L’Avana, studi Egrem. Già leader dei Sierra Maestra (quattordici gli album all’attivo), quarantaduenne e dunque giovanissimo rispetto ai più fra i musicisti e i cantanti che coinvolgerà, Juan de Marcos González è alle prese con la realizzazione di un sogno: un complesso e un disco che celebrino l’età aurea – gli anni ’40 e ’50; prima della Rivoluzione – della musica cubana sistemando spalla a spalla i protagonisti superstiti di quell’era con gli ideali figli e nipoti. A sottolineare le radici africane della musica locale, il gruppo viene battezzato Afro Cuban All Stars. Basta una settimana a imprimere su nastro l’eccellente “A toda Cuba le gusta” e a incisione ultimata si dovrebbe immediatamente porre mano, nei piani, a un progetto viceversa sperimentale, un album cui parteciperanno musicisti del Mali. Intoppo: bizzarramente, visto che a Cuba è riuscito ad arrivare senza problemi Ry Cooder a dispetto dell’ultratrentennale embargo esercitato dagli USA nei confronti dell’isola di Fidel, costoro non ottengono i visti. Che fare? Si continua a registrare, ampliando ulteriormente una compagnia che arriverà a comprendere un paio di decine di nomi, i più con alle spalle storie straordinarie che vengono sottratte a crepuscoli ingiusti. Come i già più volte citati Rubén Gonzalez e Ibrahim Ferrer, leggende viventi ma da lungi non praticanti. Il primo non tocca un pianoforte da moltissimo e manco ne possiede più uno, il secondo lucida scarpe per integrare la magra pensione. Chi si ricorda più, nella stessa Cuba, di Manuel Licea e Pio Leyva, che pure hanno cantato per decenni con le orchestre più celebri? E se Omara Portuondo (una pischella classe 1930) e il vegliardo con sigaro Francisco Repilado, meglio noto come Compay Segundo, godono ancora di una certa popolarità e possono esibirsi dal vivo con buona frequenza, la loro è tuttavia un’esistenza (preclusi da tempo immemorabile i più ricchi mercati esteri) di poco sopra una dignitosa povertà. Sia come sia: motore decisivo, con Cooder e Juan de Marcos, il virtuoso del contrabbasso Orlando “Cachaito” Lopez, in una serie di sessioni via via più emozionanti vengono incise di quattordici standard della canzone autoctona le versioni definitive. Che ci si trovi dinnanzi a un capolavoro è subito chiaro a chi ha partecipato alla sua realizzazione. Dapprincipio forse meno al patron della World Circuit, Nick Gold, che non lo dà alle stampe che nel settembre dell’anno dopo. Alla fine comunque persuaso di un valore che sottolinea con una confezione adeguatamente lussuosa, all’uscita professa ottimismo riguardo ai potenziali riscontri mercantili, prontamente confortato da una messe di recensioni entusiastiche. Ipotizza un centomila copie di venduto, che nello specifico segmento di mercato sarebbero cifra da urlo. Il suo sbalordimento è quello di tutti nel vedere i numeri moltiplicarsi esponenzialmente per mesi senza nessuna promozione vera. Probabile che stenti a oggi a capacitarsene: un Grammy e otto milioni di copie dopo.

Insomma: “Buena Vista Social Club” è un fenomeno senza precedenti per il pop terzomondista da prima che Wim Wenders inizi a girare l’omonima pellicola. Omaggiato da Cooder già nella primavera ’96 di una cassetta con un missaggio non ancora definitivo, il cineasta tedesco ne è rimasto incantato. Anche di più lo incantano le storie favolose che l’amico gli racconta riguardo alla congrega di arzillissimi vecchietti e i libri e le foto che ha portato con sé dal soggiorno caraibico. “Quando ci torni, avvisami”, gli fa. L’occasione arriva nel ’98, con Cooder alle prese con l’esordio da solista – meraviglioso almeno quanto tardivo – di Ferrer. Non vi ho descritto l’album perché sarebbe stato all’incirca come raccontare “Nevermind” o “Dark Side Of The Moon”, dischi che non vi è chi non abbia orecchiato: superfluo e finanche imbarazzante. Riguardo ai biglietti staccati ai botteghini, ai passaggi televisivi, alle vendite di cassette e DVD del film di Wenders, non ho dati. È in ogni caso uno dei documentari più visti di sempre. È in ogni caso un capolavoro che può raccomandarsi persino a chi non abbia interesse alcuno per la musica cubana o addirittura per la musica in generale. Dice bene l’autore quando rileva come la sua forza sia il fatto che cammin facendo, fra un aneddoto, una registrazione e una passeggiata per le strade dell’Avana, i personaggi che vi sfilano finiscono per sembrare romanzeschi. Eterno quesito: chi imita cosa fra l’arte e la vita? E non è, il concerto statunitense, il lieto fine che tutti avremmo voluto per questa gente fantastica? Perché è delle persone che ti innamori, prima che degli artisti o delle canzoni. Di queste “At Carnegie Hall” (doppio ma al prezzo di un singolo e disponibile dal 13 ottobre) ne regala sedici. Due più del predecessore in studio, sei diverse. È una festa, ma stavolta un po’ fatichi a cacciare la malinconia. Perché ora sai che è la fine, davvero.
Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.651, ottobre 2008.
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