“Sono diverso da Ed Sheeran, non è che faccio dischi con l’intenzione di andare al numero uno ovunque”, dice George Ezra, che con il rivale di cui sopra condivide i natali nella provincia inglese e l’irruzione nelle classifiche di ogni dove in età verdissima, esordiente in lungo a ventun anni lui, quell’altro già una star a venti. Ma chi si scusa si accusa e, insomma, a pochi giorni dall’uscita “Staying At Tamara’s” già primeggia nel Regno Unito, rinnovando i fasti del debutto del 2014 “Wanted On Voyage”. Per cominciare e poi si vedrà. E tanto per non perdere colpi nemmeno rispetto a quel Sam Smith cui George faceva da spalla in un tour nordamericano e che come età, essendo del ’92, sta nell’esatto mezzo fra Ed (1991) e George (1993). Però, dai, a ben ascoltare (o anche molto distrattamente) il giovanotto è diverso eccome da Ed: per quanto condividano un retroterra folk, è molto più pop (nel senso di poppetto) quell’altro. Per non dire da Sam e dal suo finto soul, tagliato su misura per il pubblico bue da intrattenere fra un “X Factor” e l’altro.
Ciò detto, Houston, abbiamo un problema e il problema è che, al netto di arrangiamenti più corposi, il secondo album di questo ragazzo pur talentuoso somiglia troppo al primo. In alcuni passaggi in maniera imbarazzante e invero si sobbalza quando parte una Shotgun che è copia conforme di quella Budapest che faceva decollare la carriera dell’autore. Lavoro in ogni caso, oltre che più denso, più solare del predecessore, persino in bilico fra funk ed errebì in una Don’t Matter Now che l’ha anticipato di nove mesi e brioso anche quando si fa confidenziale come in All My Love. Se Hold My Girl evoca i National, la migliore delle undici tracce, Saviour, azzarda un country cinematico su cui meriterebbe tornare.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.399, giugno 2018.
Eddy, permettimi di chiedere il tuo parere professionale: che senso ha recensire dischi del genere? C’è davvero qualcuno che leggendo la recensione potrebbe decidere che questo album fa al caso suo e procurarselo, oppure, viceversa, tenersene alla larga? Oppure è per dovere/amore di completezza da parte del recensore? O per dovere nei confronti della casa discografica o del distributore che ne ha gentilmente provveduta una copia?
Davvero non riesco a capire. A me sembra un disco inutile, che nessuno o quasi comprerà in ogni caso, e dunque per questo mi sfugge la ragione di questa recensione con tanto di post rafforzativo. Grazie, quindi, se vorrai spiegarmi che cosa ti ha spinto a scriverla e poi a pubblicarla anche qui.
Ciao
Me ne sono occupato perché scrivere recensioni è parte del mio lavoro, mi pagano per farlo e chi mi paga per farlo mi ha chiesto, per tramite di un caporedattore, di dire la mia. Nessun dovere nei confronti di casa discografica e/o distributore che, per inciso, NON me ne hanno provveduto copia. Sempre per inciso: l’album inutile che “nessuno o quasi comprerà in ogni caso” nel Regno Unito è andato al numero 1 (subito disco di platino) e in Germania al numero 2, per limitarsi ai due principali mercati discografici europei. Quindi, forse ma forse, dal punto di vista di una rivista trattasi di lavoro di cui valeva la pena parlare.
Per quanto mi riguarda, ho poi ripubblicato la recensione su VMO perché già mi ero occupato qui dell’ottimo esordio di un artista che considero talentuoso, al di là del fatto che al secondo giro abbia un po’ deluso. L’ho fatto pensando che ad alcuni lettori potesse interessare e perché IO ritengo che sia interessante (questo sarebbe ancora un blog, il mio blog, giusto?). Quelli che pensano – non so se avendolo frequentato o meno – che il giovanotto sia fuffa possono sempre tirare avanti e leggere o ascoltare altro.
Grazie.