
Il 25 marzo 2002 Lady Soul ha compiuto sessant’anni e contemporaneamente celebrato i trentacinque trascorsi da quando per la prima volta una sua incisione ascese fino alla vetta della classifica R&B. Nel 2001 aveva festeggiato un altro anniversario: quarantacinque anni nel mondo dello spettacolo. Registrato dal vivo nel 1956 alla New Bethel Baptist Church di Detroit e pubblicato quello stesso anno dalla Chess, presenza intermittente nei cataloghi e anche per questo spesso dimenticato dalle discografie, “Aretha Gospel” (***½) è un documento straordinario che quasi fa dar ragione a Peter Guralnick che, nelle succinte note a corredo, appunta che la “Franklin produrrà arte superiore in seguito, ma mai musica più grande di quella che regala qui, con la voce e i sentimenti messi a nudo”. Tutto è approssimativo in quest’album, a partire dalla registrazione nasale da blues delle origini. Eppure dalla nebbia dell’incisione primitiva la purezza, l’intensità della voce, sebbene fra le incertezze di uno stile non ancora educato, risplendono con luce abbacinante. Non si riesce a credere che ne sia proprietaria una quattordicenne. Com’è possibile che nel canto di una ragazzetta risuonino con tanta forza estasi e dolore, gioia e passione e una pensosa maturità? Come se già avesse vissuto cento vite e cercasse di trasmetterne l’essenza, trovando nel contempo redenzione, nel silenzio fra un fraseggio e l’altro. All’apice del successo si dichiarerà “una donna di ventisei anni che va per i sessantacinque”. Ogni cosa ha il suo prezzo e l’arte sa essere insopportabilmente esosa, ma la bambina “disperatamente infelice” di cui il primo manager riferiva a un cronista di “Rolling Stone” è sopravvissuta.
Predestinata alla gloria? Aretha nasce nel 1942 a Memphis, seconda figlia del Reverendo C.L. Franklin e di Barbara, che se ne andrà di casa nel 1948 lasciando al consorte il compito di allevare una prole nel frattempo arrivata a quota cinque. Dopo un breve soggiorno a Buffalo, la famiglia si trasferisce a Detroit. Lì il padre dirige la New Bethel Baptist Church, facendone la base di frequenti tour che gli conquisteranno la nomea di uomo “con la voce da un milione di dollari”. E per la bellezza (Bobby Bland la prenderà a modello), dispiegata in qualcosa come settanta LP, e per l’esosità di cachet che all’apice del successo arriveranno a quattromila dollari a data. La bambina cresce da un lato abbandonata a se stessa, dall’altro circondata da celebrità. Le fanno a turno da madre gigantesse del gospel come Mahalia Jackson, Marion Williams e Clara Ward e la casa è frequentata da Art Tatum come da Dinah Washington, da Low Rawls come da Sam Cooke. La ragazzina osserva e prende nota. Un giorno del 1957 Cooke arriva portando con sé la lacca di un 45 giri che sa che darà scandalo. Ha già pubblicato musica profana, ma sotto pseudonimo. Quel disco uscirà a suo nome e sanzionerà l’abbandono della musica sacra. Si chiama You Send Me, languorosa ballata di immani capacità seduttive, e Sam chiede alla quindicenne Aretha cosa ne pensi. Non si sa cosa rispose, ma possiamo immaginarlo ascoltando la versione, per una volta prossima all’originale, offertane undici anni dopo in “Now”.
Ecco: uno degli ingredienti principali della grandezza di Madama Franklin è la capacità di fare indelebilmente suo qualunque materiale con il quale si misuri, qualità rimarchevolmente conservata fino ai giorni nostri. Già nei tanti 33 giri pubblicati dal 1961 al 1967 per la Columbia, dove l’aveva portata John Hammond dichiarandola “la nuova Billie Holiday” e dove non la serve per niente bene un materiale indeciso fra sofisticatezza jazz e ruffianeria pop, la sua personalità risalta comunque. Ma nessuno, nemmeno Jerry Wexler che fece carte false per portarla alla Atlantic, avrebbe potuto immaginare cosa stava per sbocciare. “I Never Loved A Man The Way I Love You” è uno dei più memorabili album della storia del soul e il più grande firmato da una donna. Racconta Guralnick che il giorno che fu pubblicato si trovava a Boston e in una mattina gelida vide gente ballare e cantare, in fila per acquistarlo, fuori da negozi che lo suonavano senza posa, mentre le radio facevano altrettanto. E aggiunge: “Era come se fosse arrivato il nuovo millennio”. O un altro Elvis. Per Aretha Franklin il nuovo millennio durerà in realtà, a seconda di dove si ritiene opportuno sistemare i paletti, dai cinque agli otto anni, ma a parte i Beatles nel pop nessuno ha mai avuto e probabilmente avrà anni così.
Lascio agli enciclopedisti la contabilità di una sequela impressionante di numeri uno e dischi d’oro e platino e premi della critica e dell’industria (otto Grammy consecutivi nella categoria “Best R&B Performance, Female”) raccolti dall’artista mentre la donna attraversava inferni personali sui cui si è scritto, facendole torto, quasi come sulla musica. Qui riferisco di sette LP in studio e tre dal vivo pubblicati nel volgere di un travolgente lustro e uniformemente propulsi dai migliori musicisti che si trovassero allora sulla piazza soul (con qualche comparsata anche di campioni del rock: Eric Clapton in “Lady Soul”, Duane Allman in “Spirit In The Dark”). Fra i primi almeno “Aretha Arrives”, “Lady Soul” e “Aretha Now” basterebbero (ciascuno da solo) a iscrivere il nome di questa donna negli annali. Ma pure il jazzato “Soul ’69” (***½) e “This Girl’s In Love With You” (***½; con dentro una Eleanor Rigby indicibilmente trasfigurata e una sontuosa Let It Be, scritta da McCartney appositamente ma incisa soltanto dopo quella dei Beatles), “Spirit In The Dark” (***) e “Young, Gifted And Black” (***) valgono assai. Imprescindibili poi i live: “In Paris”, all’Olympia e istantanea di un trionfo francese; “At Fillmore West” (***½), testimonianza del sorprendente abbraccio ad Aretha della nazione hippie, con a chiudere una Reach Out And Touch (Somebody’s Hand) che sarà anche retorica ma tuttora commuove; e infine “Amazing Grace”, inatteso e felicissimo ritorno al gospel. Piace pensarlo come la chiusura del cerchio che la ragazza aveva cominciato a tracciare alla New Bethel Baptist Church sedici anni prima, sotto l’occhio vigile e tiranno del padre.
Nefasto il passaggio dalla Atlantic alla Arista nel 1980, l’anno dopo l’ennesima tragedia, il ferimento del Reverendo Franklin durante una rapina (morirà dopo cinque anni di coma che Aretha trascorrerà per la più parte al suo fianco): come e peggio che negli anni alla Columbia, il repertorio tornerà a essere di scarso spessore, fra dance e pop. Peccato, ché la voce resta magnifica, senza una ruga, come certificano l’occasionale ritorno al gospel nell’eccelso ma isolato “One Lord, One Faith, One Baptism” (1987; ***½) e virtuosismi, ancora nel recentissimo (2003 e annunciato come il disco il cui tour segnerà l’addio ai concerti) “So Damn Happy” (*½), che fanno correre brividi per la schiena.

Queen Of Soul (Rhino, 1992; 4CD) ****½
Sottotitolo: “The Atlantic Recordings”, a distinguere questo box dalla distillazione in un singolo di due anni successivo sottotitolato “The Very Best Of” (*****), naturalmente stupendo e altrettanto naturalmente non bastante. La verità è che l’unica alternativa a questa cornucopia di tesori è acquistare in blocco la produzione Atlantic dal 1967 al 1972: undici album variamente imprescindibili. Ove degli otto da lì al 1979 si può felicemente fare a meno.

I Never Loved A Man The Way I Love You (Atlantic, 1967) *****
La pur folta discografia Columbia, otto LP fra il 1961 e il 1966 (apprezzabili quanto tendenziosi compendi “a tema” in “Sings The Blues”, 1985, e “Love Songs”, 2001; entrambi ***), in nessun modo preparava al magnetismo, alla passione, alla sensualità di questo debutto per la Atlantic. Lo inaugura Respect ed è subito apoteosi, fra il piano e la ritmica che giocano a chi è più funky, il coro che impazza, i fiati a raffica e sopra la voce di Aretha, che trasforma la domestica concione di Otis in un inno insieme femminista e di consapevolezza nera. In un capolavoro in cui pure le doti di autrice della Franklin trovano risalto – in una Don’t Let Me Lose This Dream che andrebbe fatta mandare a memoria alle squinziette del modern soul, in una Baby Baby Baby di accorata tensione e in special modo nel lubrico blues di Dr. Feelgood – è però il suo essere interprete incomparabile che si evidenzia maggiormente, nelle sacrali dodici battute di Drown In My Own Tears come nel countreggiare di Do Right Woman – Do Right Man, nei Sam Cooke antipodici di Good Times e A Change Is Gonna Come e più che mai in una title track (di Ronny Shannon) amarissima serenata a un uomo odiosamente prevaricatore. Impossibile non pensarla dedica a quel Ted White che di Aretha fu a lungo compagno e dalla cui schiavitù stenterà a liberarsi.

Aretha Arrives (Atlantic, 1967) ****
Dura dare un seguito a cotanto esordio. La ragazza si toglie il pensiero con un LP che di suo sarebbe stato debutto mostruoso. Fra la partenza a perdifiato di una Satisfaction comunque meno irruenta di quella di Redding e il sigillo della birichina Baby I Love You, le perle più lucenti sono una You Are My Sunshine dal retrogusto gospel, una 96 Tears singultante, la sinatriana That’s Life, una Going Down Slow che fa onore blueseggiando al suo titolo.

Lady Soul (Atlantic, 1968) ****½
Che si sia in presenza di una seconda pietra miliare è subito chiarito dall’esuberante, imperiosa tirata di Chain Of Fools. Ribadiscono il concetto una People Get Ready di impareggiabile drammaticità, l’innodica (You Make Me Feel Like) A Natural Woman, una lettura pigra e sexy di Groovin’ e i vocalizzi da pelle d’oca di Ain’t No Way.

Aretha Now (Atlantic, 1968) ****
L’ennesimo classico autografo ad aprire: Think. E poi una volta di più il miracolo di classici altrui di cui la Franklin si appropria con classe e sentimento di una lega loro, da I Say A Little Prayer di Bacharach a Night Time Is The Right Time di Ray Charles, a You Send Me di Sam Cooke.

Aretha In Paris (Atlantic, 1968) *****
Il più fantastico lascito del Maggio parigino? Eccolo. Non avrà molto a che vedere con le barricate (non avrà molto a che vedere con le barricate? un disco che inizia con Satisfaction e si chiude con Respect?) ma sarebbe valsa la pena di fare il ’68 anche solo per avere in cambio questa dozzina di successi, resi con inenarrabile fervore in una serata all’Olympia chiamata a rappresentare su vinile il primo tour europeo.

Amazing Grace (Atlantic, 1972; 2LP) ****
Cerchio che si chiude, come già annotato, con tradizionali resi con sensazionale grazia, da quello che (ahem) battezza il tutto a Never Grow Old, da What A Friend We Have In Jesus a God Will Take Care Of You, ma anche con una solo sulla carta incongrua You’ve Got A Friend (Carole King; in medley con Precious Lord, Take My Hand) e una appena meno sorprendente Wholy Holy (Marvin Gaye).
Pubblicato per la prima volta su Soul e Rhythm & Blues – I Classici, Giunti, 2004.
Mi piace:
Mi piace Caricamento...