Da inquilino delle stanze sul retro di casa Stax a icona afroamericana: la più inconfondibile, grazie alla pelata qui luccicante in copertina, dopo Martin Luther King e Malcolm X. Da autore conto terzi di esemplari 45 giri uptempo di tre minuti o meno a interprete di autentiche suite downtempo elaborate su materiali altrui. E ancora: da bambino cresciuto in dickensiana miseria a celebrità che si presenta a ritirare l’Oscar guadagnato per una colonna sonora accompagnato da quella nonna che lo aveva amorevolmente cresciuto. Vittoria che dovette lasciare, pur nel momento del trionfo, un retrogusto amarognolo in Isaac Hayes, che di Shaft avrebbe voluto non solo comporre le musiche ma essere fra gli interpreti e anzi l’interprete principale, ruolo negatogli dal regista Gordon Parks, che gli preferì Richard Roundtree. Il nostro eroe in due modi si prenderà la rivincita: con una carriera attoriale di visibilità e livello apprezzabili negli anni ’80 (citabili la presenza in 1997: fuga da New York di John Carpenter e le parti da protagonista nei telefilm A-Team e Hunter) e vedendo Samuel L. Jackson prenderlo a modello nel remake di Shaft imbastito da John Singleton nel 2000. Presenza onnipervasiva nella musica dell’ultimo ventennio, Hayes, pur avendo di suo pubblicato soltanto una peraltro notevole accoppiata di album nel ’95 (“Branded” e “Raw & Refined”): ma la sua impronta è visibilissima nel modern soul, l’hip hop lo ha omaggiato in ogni modo e il trip-hop addirittura sistemava a fondamenta due classici quali Ike’s Mood 1 (su cui i Massive Attack modellavano One Love) e Ike’s Rap 2 (base per Glory Box dei Portishead). Nel mentre lui si divertiva a dare voce a Chef nel trasgressivo cartone animato South Park. Di nuovo dietro le quinte, cerchio in un certo qual senso chiuso e purtroppo irrimediabilmente sigillato lo scorso 10 agosto, da un ictus che ha stroncato all’improvviso nella sua casa di Memphis un omone che avresti detto indistruttibile e che da lì a dieci giorni avrebbe festeggiato il sessantaseiesimo compleanno.
Di anni ne ha poco più di venti l’Isaac Hayes che si offre come artista solista alla Stax, ricevendo un rifiuto e un altro e un altro ancora. Finiscono in compenso per assumerlo come tastierista e in tale veste si troverà a sostituire Booker T. in alcune sedute di registrazione di Otis Redding. Un inizio, prima che a furia di proporsi i suoi servigi vengano graditi anche in qualità di compositore. Con il paroliere David Porter il Nostro forma un’affiatata coppia che soprattutto a un’altra coppia, Sam & Dave, fornisce successi, da You Don’t Know Like I Know a Hold On I’m Comin’, da When Something Is Wrong With My Baby a Soul Man. Anche Carla e Rufus Thomas, Mable John, Ruby Johnson, Johnnie Taylor vengono beneficiati dai due e Hayes sfrutta la credibilità guadagnata per prendersi infine il centro della ribaltà. Nel 1968 il jazzato “Presenting” è però esordio poco significativo, in assoluto e di quanto verrà. A partire l’anno dopo da quest’album che nella storia del soul è linea divisoria rispetto alla quale si contano gli anni manco fosse un Avvento. Prima, gli LP concepiti come tali sono rarità assolute in un mondo in cui il singolo è sovrano. Dopo, saranno la norma. Prima, certe orchestrazioni degli ingombranti scampoli di Tin Pan Alley messi lì per convincere i bianchi che pure la sbobba negra sa essere raffinata. Da qui in poi, tappe sulla strada che porterà al Philly Sound, alla disco, alla house. Ma per intanto l’anima bollente e imburrata (con allusione sessuale lampante) è pure psichedelica nei suoi più intimi recessi. Mai sentita roba del genere. Elettriche a bagno nell’acido in slalom fra archi plananti e ottoni puntuti, fra profumi di jazz, ricordi di blues e organi chiesastici a bordone. Tutto dilatatissimo, quattro canzoni a fare un album e da sole due totalizzano trentuno minuti, dodici la bacharachiana Walk On By, poco meno di diciannove una By The Time I Get To Phoenix che era di Jim Webb e non potrà più esserlo, espansa com’è e con un recitativo a incipit che Barry White cercherà di replicare all’infinito. Eravamo allora nel futuro, saremo sempre nell’ineffabile. Se One Woman pare passo indietro (ma squisito) verso Sinatra, o se preferite Nat “King” Cole, l’unico brano firmato da Hayes è crema di funkadelia sin dal titolo: Hyperbolicsyllabicsesquedalymistic. I tre minuti canonici delle ballate e dei ballabili Stax d’antan vengono d’un colpo consegnati agli annali.
Due anni più tardi (in mezzo e dopo convincenti rifiniture del canone qui delineato: in “The Isaac Hayes Movement”, in “To Be Continued”, in “Black Moses”), strade a tratti opposte verranno percorse in “Shaft”, capolavoro del filone blaxploitation declinante funk da ghetto anche elegante ma soprattutto travolgente. Da lì in poi Isaac Hayes si muoverà costantemente fra i due estremi rappresentati da pietre miliari per molti versi antipodiche, confezionando lavori spesso a un passo dal kitsch ma capaci di non caderci mai. Nemmeno nei momenti di ispirazione più episodica, nemmeno quando il flirt con la disco si farà pronunciato. Dischi per inciso vendutissimi, sia a 45 che a 33 giri, con sette dei primi dieci album al numero uno della classifica R&B e uno al numero due.
Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.651, ottobre 2008. A oggi sono trascorsi esattamente dieci anni dacché Isaac Hayes, un po’ prematuramente, ci lasciava.
ecco, sì. A parte le cose dette – e al solito inappuntabili – inerenti l’agiografia ‘classica’ dell’Uomo, è sacrosanto da parte mia concordare per ciò che riguarda l’Isaac Hayes da metà settanta in poi: mai meno che dignitoso, occasionalmente magistrale nel suo andirivieni bipolare tra quelle sue due inarrivabili pietre miliari. Prendo un disco come la bistrattatta OST ‘Tough Guys’: parte il tema che da il titolo al film ed è attacco di pura funkitudine ‘Shaft’ con fiati a delimitare il perimetro ed archi deluxe a cascata. A seguire, una ‘Randolph & Dearborn’ che è felpato soul jazzato di altissima scuola. Giudizio critico: due stelle su All Music, fortunatamente mitigate dalle quattro dei ‘consumatori’. Per dire, eh?
E’ stato il primo disco soul/R&B che ho ascoltato. Meglio di così non poteva andare mi pare …