L’uomo che nel 2010 si piazzava quarto (dopo John Frusciante, Slash e Matt Bellamy) in un referendum indetto dalla BBC per designare gli eroi moderni della chitarra elettrica a quell’altezza ancora doveva debuttare (“Boomslang”, del 2003, è a nome Johnny Marr & The Healers) da solista. Essendo al tempo già passati ventitré anni dacché divorziò da Morrissey, spezzando il cuore a una generazione di appassionati di rock. Chiaro indizio di come si senta meglio da fiancheggiatore – o dividendo con altri la ribalta come negli Electronic, progetto condiviso con Bernard Sumner che resta il suo piccolo grande momento di gloria post-Smiths – che al centro del palcoscenico. Insomma: uno che si trova bene solo in un contesto di gruppo. Si trovava? A un certo punto qualcosa deve essere scattato se nel 2013 infine esordiva in proprio con “The Messenger”, l’anno dopo gli dava prontamente un seguito con “Playland” e quello dopo ancora pubblicava il live “Adrenalin Baby”. Nella cui scaletta compaiono quattro classici della band che sapete e ci si stupiva, vista la difficoltà sempre avuta da costui a rapportarsi con quell’ingombrante lascito.
Come se così avesse messo un punto e a capo, Marr ha meditato a lungo il terzo lavoro in studio, ripartenza che si può dire – un po’ paradossalmente, siccome contiene alcuni dei suoi assoli più ribaldi – la sua cosa meno scritta in funzione della chitarra di sempre. Non particolarmente smithsiana, ma nemmeno lo erano le precedenti, e che razza di maledizione è allora che alla fine si ricordino quelle poche tracce – Hi Hello, Day In Day Out; pure una Rise con tremolo alla How Soon Is Now – da cui ci si aspetterebbe di sentire sbucare la voce di Morrissey. Il resto per lo più prova a farsi congiunzione fra T-Rex e New Order, con esiti alterni.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.401, settembre 2018.