Ruote in fiamme – Un po’ del meglio di Brian Auger

Trattavasi di missione impossibile: riassumere in un CD, sebbene sfruttato per quanto permette il supporto, una storia durata dodici anni, altrettanti LP, vari singoli e non dico non vi fosse nulla da buttare, soprattutto inoltrandosi nel percorso, ma tali e tante sono le gemme che ci sarebbe voluto un forziere per le più lucenti, uno scrigno non poteva bastare. Un doppio, magari. Un cofanetto di tre o quattro compact senz’altro. Si sarebbe allora resa giustizia a un artista dalle fortune altalenanti e nondimeno da un quindicennio in qua, da quando cioè l’acid jazz furoreggiava, costantemente in auge. Ma vedrete che prima o poi il box verrà approntato. Visto il riciclaggio costante nell’ultimo decennio degli archivi del tastierista britannico, ci sarebbe da stupirsi se ciò non accadesse. Ce le rivenderanno ancora, Indian Rope Man e qualche decina di altre, ma non vale lamentarsene, la buona musica è sempre meglio sia in giro. Insomma: è appena arrivata nei negozi, griffata Castle Music e distribuita da Edel, “This Wheel’s On Fire”, sontuosa antologia a seguire le ristampe, lo scorso anno, di sei album e la sapete una cosa? Potete esserveli comprati tutti e dei diciassette articoli in scaletta in questo “Best Of Brian Auger With The Trinity, Julie Driscoll, Oblivion Express” sei vi mancherebbero lo stesso perché tratti, oltre che da un 45 giri, da lavori che non rispondono all’appello: un remoto “Jools & Brian”, collaborazione numero tre (l’anno il 1968) della magica coppia, e poi, degli Oblivion Express, “Second Wind” (1972), “Closer To It” (1973), “Reinforcements” (1975). Finisco di fare il ragioniere contestando, da bravo fan, al compilatore Will Nicol (buone le note redatte da Dean Rudland) alcune scelte: a fronte dell’inclusione, ad esempio, di una Pavane tendente al prog, del funk-pop un po’ così di Foolish Girl, fors’anche di una Freedom Jazz Dance in odore di fusion, stridono l’esclusione in toto di “Definitely What!” (che diamine! almeno quella George Bruno Money citata da Rudland ci sarebbe potuta stare) e la presenza di due soli brani da “Streetnoise”. Quello però, se siete vecchi lupi dei mari del rock o comunque attenti lettori di “Extra” (fra i cento migliori dischi degli anni ’60, numero 4), dovreste averlo. Capolavoro assoluto che, cito, “fa confluire il jazz in un più ampio fiume cui portano le proprie acque soul e rhythm’n’blues, folk e quell’equivoco che andrà sotto il nome di progressive. Illuminato dalla sublime voce della Driscoll, non denuncia un cedimento in un’ora e un quarto e tocca inenarrabili zenit nel commosso e corrusco macchinare di Czechoslovakia e in una Light My Fire in moviola”.

Era l’approdo, nel 1969, di un percorso già lungo per il trentenne Auger, nato come pianista jazz quando saranno un organo elettrico, l’Hammond B3, e le contaminazioni con soul e rock a regalargli la fama vera, quella delle classifiche, non delle riviste (“Melody Maker”) che nel 1964 lo proclamavano migliore pianista jazz al mondo, niente di meno. Poco da stupirsi se dagli appassionati del genere il Nostro avrebbe dovuto subire, per il tradimento, contestazioni simili a quelle con cui era stato bersagliato Bob Dylan per la sua di svolta elettrica. Accadeva a un festival a Berlino nel 1968 e partivano clamorose bordate di fischi che non lo intimidivano. Già a fine concerto sarebbero stati applausi. A quel punto i Trinity erano in pista da tre anni (fulminante l’esordio a 45 con lo sculettante errebì Fool Killer), l’esperienza Steampacket – potenzialmente prodigioso quanto effimero supergruppo con tre cantanti, Long John Baldry, Rod Stewart e Julie Driscoll – accantonata e la Driscoll stessa una presenza pressoché costante. Splendido nel 1968 il primo LP con la triplice ragione sociale, “Open”, e da lì arrivano una meravigliosa lettura, sincopata e alata insieme, della Season Of The Witch di Donovan, la garagista Black Cat, una Break It Up a chiamata e risposta degna della migliore Aretha Franklin. A proposito di Lady Soul: sua e se possibile migliorata una Save Me che giunge dal citato dianzi “Jools & Brian” e sempre a quel fatidico anno risale l’unico numero uno che la compagine avrebbe avuto, la cover di Dylan che intitola la raccolta. Dal canto suo “Streetnoise” avrebbe riletto il Richie Havens di Indian Rope Man (inventando nel farlo i Prisoners, i Charlatans, gli Inspiral Carpets) e i Doors di cui sopra, Nina Simone e un Miles Davis che in un certo qual modo ripagherà l’omaggio studiandosi per bene il monumentale in tutti i sensi doppio quando sarà lui ad accendere gli amplificatori. “Befour” nel 1970 sarà il primo 33 giri con la RCA (i precedenti per la Marmalade) e nel contempo il primo senza Julie. Ma – qui – il funk-jazz di Listen Here e il funk e basta di una straripante I Want To Take You Higher (da Sly Stone) ne mascherano bene l’assenza.

Al pari persuasivi saranno i primi tre album come Oblivion Express, l’omonimo, “A Better Land” e “Second Wind”. Fra Davis, Santana e hard il primo, venato di folk il secondo, grintosamente errebì il terzo. È da “Closer To It” che lo stile di Brian Auger comincerà a farsi maniera, ma ogni disco riserverà ancora qualche perla.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.610, maggio 2005. I Brian Auger’s Oblivion Express sono in concerto questa sera al Le Roi Music Hall di Torino e domani al Blue Note di Milano.

4 commenti

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4 risposte a “Ruote in fiamme – Un po’ del meglio di Brian Auger

  1. Articolo con rimandi e richiami a rotta di collo ma sempre ottimo. E un altro stimolo a esplorare e approfondire.
    Grazie ancora una volta, Eddy.

  2. Approfondirò…. la mia “ignoranza”
    (perché ignoravo) mi rende molto curiosa…🤗 grazie

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