Archivi del mese: dicembre 2018

Richard Thompson – 13 Rivers (Proper)

Aveva sì e no vent’anni Richard Thompson quando imprimeva il suo nome in caratteri cubitali nella storia della popular music da chitarra solista dei Fairport Convention artefici di un trittico di capolavori – “What We Did On Our Holidays”, “Unhalfbricking” e “Liege & Lief” – che cambiava per sempre il rapporto fra folk britannico e rock, creando contaminazioni la cui eco ancora si riverbera. Ne aveva ventuno quando li lasciava e avrebbe potuto da allora vivere di gloria e del lavoro da turnista garantitogli da una tecnica strumentale sopraffina. E invece no, non si accontentava, disseminando nella prima metà dei ’70 – in fondamentale collaborazione con l’allora moglie Linda – altre pietre miliari sulla strada di una musica elettroacustica austera e poetica, altera e includente, aristocraticamente ecumenica. Per poi traversare in scioltezza l’epoca della new wave facendosi riconoscere come fratello maggiore di un Elvis Costello e arrivare a quella del college rock riveritissimo da Bob Mould come dai R.E.M. E almeno da allora avrebbe potuto sul serio riposare sugli allori. Macché!

Tre ulteriori decenni sono trascorsi e il nostro sessantanovenne eroe continua a ingrossare una discografia giunta con questo al diciottesimo capitolo in studio (con quelli che divise con Linda si arriva a ventiquattro) senza il fantasma di un mezzo passo falso. Se va da sé che i classici d’antan restano insuperabili, “13 Rivers” nondimeno evidenzia ispirazione ed energia prodigiose per un musicista che frequenta studi di registrazione e palcoscenici da mezzo secolo. Antipodico rispetto agli “Acoustic Classics” reinterpretati nel più immediato (2017) predecessore, è uno dei suoi album più turgidi e corruschi, un blues cattivo ad animarlo più di un folk che fa capolino solo occasionalmente e in tralice.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.403, novembre 2018.

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Paul Weller – True Meanings (Parlophone)

Come da pessima usanza sempre più diffusa, del quattordicesimo album in studio (da solista; ce ne sono poi e anzi prima sei con i Jam e altrettanti con gli Style Council) del Modfather circolano due edizioni: quella per così dire “normale” e una “Deluxe”. Perché, dai, per quale ragione aspettare il decennale per sfruttare il cultore che ancora si ostina a comprarli, i dischi, quando un po’ di sangue in più puoi succhiarglielo subito? Che poi chi lo sa fra dieci anni in che condizioni sarà, l’industria della musica. Sia come sia: farà bene l’appassionato di cose welleriane a spendere quei quattro euro in più per la versione da diciannove tracce e un’ora e un quarto di “True Meanings”, lasciando negli scaffali quella presa qui come riferimento, che di brani ne conta quattordici per complessivi cinquantacinque minuti. Glielo consiglio non per solleticarne le smanie collezionistiche ma perché, pletoriche le versioni strumentali offerte come bonus di una Glide di afflato Cat Stevens e dello stiloso jazz-blues Old Castles, i tre remix che le precedono si fanno apprezzare più delle incisioni scelte per l’edizione standard. Meglio la The Soul Searchers che Richard Hawley funkizza facendo entrare la ritmica subito e non dopo oltre due minuti, una Aspects che da accorata che era in un dilatato RaVen Remix si fa spettrale, una Mayfly che la Reflex Revision irrobustisce e annerisce, nel senso black del termine.

Fatto è che se Paul avesse preferito le suddette di letture a quelle incluse nel programma regolare avrebbe avuto come effetto di movimentare questa collezione di confidenziale, autunnale folk-rock rendendone più vario un mood eccessivamente uniforme per l’uomo degli “ever changing moods”. Più di forma (gli arrangiamenti sono elegantissimi) che di sostanza.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.403, novembre 2018.

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It Was A Family Affair – Il secondo capolavoro degli Spirit

Album di pura, ineffabile magia l’omonimo debutto dei losangeleni Spirit, dalle prime ticchettanti battute e dall’ondivaga melodia di Fresh Garbage – brano subito ripreso dai Led Zeppelin – al suggello “in jazz” Elijah, passando per la perfetta fusione fra Beatles e Pink Floyd di Uncle Jack e il raga Girl In Your Eye, l’ipnosi pop di Topanga Windows e la circolare cantilena Water Woman. A proposito di Zeppelin: per Stairway To Heaven si “ispireranno” al primo, indiscutibile classico firmato dal giovanissimo chitarrista Randy California, Taurus. A consegnare definitivamente gli Spirit alla storia del rock provvede entro quello stesso 1968 “The Family That Plays Together”. Ventiduesimo nella classifica di “Billboard” dopo avere fruttato un numero 25 con il singolo fra rock’n’roll ed errebì I Got A Line On You. Rimarrà l’unica hit del gruppo, ma ci sono gioielli nel forziere del secondo Spirit di caratura superiore: il sogno lisergico It Shall Be; una favolistica The Drunkard; una Darlin If che è come se Dylan fosse stato il quinto di CSN&Y; una Jewish che dispensa fragranze etno; una Aren’t You Glad nel cui perentorio finale solista e ottoni si rincorrono. In rampa di lancio per lo stardom, la casa discografica sconsigliava ai nostri amici di comparire a Woodstock. Ci sono treni che passano una volta. Non andrai più da nessuna parte, se li perdi.

Pubblicato per la prima volta in Rock – 1000 dischi fondamentali, Giunti 2012. Cadono oggi i cinquant’anni dalla pubblicazione di questo disco.

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Istantanee dalla nascita di una Leggenda: i Rolling Stones alla BBC

Ma davvero l’erba del vicino è sempre più verde? Viene da piangere sapendo quanto siano disorganizzati gli archivi RAI. Materiali di straordinario valore risultano irrintracciabili e nemmeno si sa se ancora esistano, essendo lacunosi i registri e giacché negli anni ’50 e ’60 vigeva la pratica, stante l’alto costo dei nastri magnetici, di usare più volte la stessa bobina, cancellando quanto vi era stato inciso in precedenza. Ma a quanto pare alla BBC non sono messi meglio, se è vero come è vero, per dire, che i Rolling Stones non hanno nella loro disponibilità tutte le partecipazioni a “Top Of The Pops” e qualche tempo fa lanciavano un appello ai fan per verificare cosa mancasse. Se è vero come è vero che nemmeno la versione “Deluxe”, quella con trentadue brani invece di diciotto, del fresco di stampa “On Air” rappresenta un’integrale delle loro performance per l’emittente radiotelevisiva di stato nel triennio 1963-1965. Non sono per niente un cultore dei bootleg e ne ho proprio pochi in casa. Sono però un cultore degli Stones e anni fa, imbattendomi in un “Get Satisfaction… If You Want!” dal significativo sottotitolo “The Best Of BBC Radio Recordings 1963-65”, e verificatane una qualità audio sorprendentemente buona, non resistevo. Ebbene: non solo diversi dei tanti brani in comune con questa uscita ufficiale arrivano non dal medesimo programma ma è lì presente una Not Fade Away che su “On Air” manca del tutto. E se ci sta, ed è anzi apprezzabile (per l’appassionato medio; per gli assatanati c’è sempre il mercato delle pubblicazioni pirata), che di canzoni di cui si avevano varie versioni sia stata scelta quella meglio suonante un’assenza così rilevante lascia perplessi: quante altre ce ne saranno? Più d’una, come ho avuto modo di constatare con una rapida ricerca in Rete. Quanti i pezzi di cui non è stato reperito un master? Anche se ciò che più spiace è la scelta in senso opposto rispetto a quella di analoghe collezioni dei Beatles di espungere presentazioni e piccole interviste che avrebbero aiutato a ricreare un’impagabile capsula temporale, aiutandoci a immaginare cosa provò chi ascoltava dinnanzi al disvelarsi di un mondo nuovo (può tuttavia valere pure la tesi opposta: meglio non interrompere con dei parlati il fluire della musica). “On Air” non rispetta poi l’ordine cronologico e nondimeno forse è meglio così, la scaletta – sia nella versione breve che in quella lunga – funziona e allora bando alle fisime da filologi.

A patto di non essere irragionevoli attendendosi miracoli l’altra cosa che funziona alla grande di “On Air”, ed ecco perché si è scelto di dargli tanto spazio, è il come suona, prodotto di un processo di restauro, chiamato “audio source separation”, posto in essere ogni volta che era possibile. Si è trattato nella pratica di de-mixare le tracce originali, separando voci e strumenti per irrobustirle e quindi riassemblarle, bilanciate al meglio, in un nuovo missaggio. “Immaginate di potere destrutturare un frappè e di mettere da parte le fragole, da un’altra le banane e da un’altra ancora i cubetti di ghiaccio; quindi prendete tutti gli ingredienti e frullateli insieme da capo”, ha sintetizzato fantasiosamente quanto efficacemente “Wired”. Si è lavorato così, con la pazienza con cui ci si applica a un affresco medioevale rovinato e con lo stesso fantastico risultato di renderne vividi i colori come quando venne dipinto, alle diciotto canzoni che compongono il programma dell’edizione singola di “On Air”. Non ai quattordici brani che seguono nell’edizione “Deluxe”, ove (ma non si inverta il rapporto causa/effetto) la qualità audio cala e in un paio di casi almeno solamente il valore documentale e artistico giustifica l’inclusione in un disco con i crismi dell’ufficialità. E però mi sento di garantire che, una volta gustata la versione estesa, in nessun modo un genuino amante del rock e dei Rolling Stones potrà tornare indietro, rassegnandosi a quella “normale” per qualche imperfezione tecnica. Questione pure di prezzo: modesta la differenza fra l’edizione singola e quella doppia in CD, visto che dovreste pagare la prima un 16 euro e la seconda sui 22; ma insignificante se è di vinile che si parla, una trentina di euro contro 22-24, con oltretutto una diversa distribuzione delle tracce che migliora marginalmente la dinamica del primo LP. E volete mettere la bellezza (copertina naturalmente apribile, grande formato e tutto il resto) dell’oggetto? Senza contare quasi il dovere, se chiedete al Vostro affezionato, di recuperare questo prezioso pezzo di Storia nel formato discografico dominante e anzi unico dell’epoca cui appartiene.

Dominano qui i primissimi Stones, evangelisti del blues, del soul e del rock’n’roll che ancora il geniale (e anche lui imberbe) manager Andrew Loog Oldham non aveva rinchiuso in una stanza (Mick e Keith; Brian era probabilmente in giro a ingravidare fanciulle) con la promessa che non sarebbero usciti se non avessero prima scritto qualche canzone. Qui i brani firmati Jagger/Richards (alcuni in collaborazione con il resto della band) sono appena cinque, di cui tre, The Spider And The Fly, Little By Little e 2120 South Michigan Avenue, certamente minori e un quarto, The Last Time, un plagio degli Staple Singers. Ma il quinto è (I Can’t Get No) Satisfaction, ossia “il” riff per antonomasia. Stabilendo il tono di quanto segue irrompe alla ribalta (e meno male allora che l’ordine cronologico non è stato rispettato!) quasi subito, a ruota della travolgente Come On, da Chuck Berry, il 45 giri con cui il gruppo aveva esordito nel giugno 1963, quattro mesi prima di registrare al “Saturday Club” questa versione se possibile persino più eccitante. Ecco: è l’aggettivo che meglio si attaglia, “eccitante”, alla prima raccolta legale (dentro fra l’altro otto canzoni altrove inedite) di incisioni radiofoniche di questi nostri oggi vetusti eroi. È uscita a un anno esatto dall’eccellente collezione di blues “Blue & Lonesome” e come non emozionarsi facendole girare di seguito? Alfa e Omega di una Leggenda.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.396, febbraio 2018.

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Mogwai – KIN (Rock Action)

Con la loro propensione a creare musiche estremamente atmosferiche e immaginifiche, era nell’ordine naturale delle cose che gli scozzesi Mogwai si ritrovassero a lavorare per la televisione e il cinema. Strano era semmai che ci mettessero dieci anni, proficuamente impiegati a conquistarsi la nomea (loro odiano l’etichetta, ma tant’è) di massimi e più popolari esponenti (d’accordo: non contando i Radiohead, però partiti suonando tutt’altro) del post-rock europeo. Cominciavano nel 2006, creando il commento per il documentario Zidane, un portrait du 21e siècle, e non hanno più smesso, alternando questa produzione a quella degli album per così dire regolari. E hanno sempre preso molto sul serio questa attività. Appena due anni or sono arrivavano addirittura a portarla in tour una colonna sonora, quella di un altro documentario, Atomic, Living In Dread And Promise, eseguendola mentre alle loro spalle ne scorrevano le immagini e relegando il repertorio classico nella seconda parte del concerto. Era in ogni caso un lavoro importante per i Mogwai, il primo realizzato dopo la defezione di uno dei componenti storici, il chitarrista e tastierista John Cummings.

“KIN” è importante per un’altra ragione: per la prima volta sono spartiti scritti per un film di finzione (in precedenza, per i Nostri, solo documentari e la serie TV francese “Les revenants”). Per sapere quanto funzionino al cinema bisognerà naturalmente attendere l’uscita nelle sale della pellicola fantascientifica che accompagnano. Sanno in ogni caso camminare pure da sole queste otto tracce strumentali dal sobrio al luttuoso, eppure violento (episodi migliori una Flee in transito da Henry Mancini ai Neu! e lo space rock Donuts), con approdo all’unica canzone We’re Not Done, un gioiellino di shoegaze pop.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.403, novembre 2018.

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Low – Double Negative (Sub Pop)

Scalpore fra i fan dei Low – a quell’altezza un culto consolidato e del resto era già il loro album numero sette – quando nel 2005 firmavano per la Sub Pop e davano alle stampe “The Great Destroyer”. A suscitare perplessità e reprimende “a prescindere” non era tanto che passassero di categoria, dopo tre lavori per l’inglese e piccina Vernon Yard e altrettanti per un’indipendente di medie dimensioni come la Kranky, di Chicago, quanto che si accasassero presso l’etichetta che verrà sempre ricordata come la casa del grunge, la Sub Pop. Ma come! Proprio loro che all’apparire alla ribalta erano stati considerati la più sommessa e per questo più potente delle antitesi del grunge? Alfieri della scena slowcore, artefici di una musica impalpabile e lentissima. Aveva tuttavia un senso che quello che è fondamentalmente un duo formato anche in una vita da coniugi dal chitarrista Alan Sparhawk e dalla batterista Mimi Parker scegliesse quel marchio per pubblicare quel disco: “The Great Destroyer” li vedeva per la prima volta alzare almeno ogni tanto i volumi ed evidenziava contestualmente un’inedita vena pop.

Tredici anni e cinque album dopo l’etichetta è la stessa, la musica no ed è uno scarto inatteso e nettissimo rispetto anche all’immediato predecessore (del 2015), “One And Sixes”. Facile prevedere che il dibattito fra i seguaci della band si infiammerà come mai prima, nulla al confronto la diatriba di cui sopra. È che musica così i Low non l’avevano mai prodotta (appena alcuni anticipi nel comunque infinitamente più potabile “Drums And Guns”, del 2007): foschissima, claustrofobica, spesso fragorosa e distorta. Fra un distendersi di bordoni e un crepitare di energia statica, non una traccia si distingue davvero fra le undici che sfilano. Il coraggio è apprezzabile, l’ascolto faticosissimo.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.402, ottobre 2018. “Disco dell’anno” per “Uncut” e, qui in Italia, sia per “Blow Up” che per “Rumore” e altissimo in innumerevoli altre playlist, fra le quali molte personali di gente che professionalmente e/o umanamente stimo assai: “Double Negative” è diventato il lavoro più acclamato nella venticinquennale vicenda dei Low. Io, che li ho sempre adorati, l’ho invece detestato con ogni più intima fibra del mio essere. Sarà un problema mio, probabilmente. Sarà che mi è toccato farci i conti nell’estate più stressante e brutta della mia vita, ma l’ho trovato insopportabile. Per me “Double Negative” è l’estate del 2018. Non lo riascolterò mai più.

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Audio Review n.404

È in edicola il numero 404 di “Audio Review”. Contiene mie recensioni degli ultimi album di Bevis Frond, Neneh Cherry, Cypress Hill, Everlast, William Fitzsimmons, John Hiatt, Glen Matlock, Tom Morello, Will Oldham, Yoko Ono, Graham Parker, Phosphorescent, Seasick Steve, Spain e Dan Stuart e di una ristampa dei Longbranch/Pennywhistle. Nella rubrica del vinile ho scritto in lungo di John Barry e più in breve di Ry Cooder.

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The Day Soul Music Died (per Otis Redding)

Niente affiliazione al “club dei 27”, quello delle rockstar decedute prima di festeggiare il ventottesimo compleanno, per Big O. Non è tanto questione che quando se ne andò Brian Jones, Jimi Hendrix, Janis Joplin, Jim Morrison erano ancora di questa terra, Kurt Cobain aveva dieci mesi e quanto a Amy Winehouse non sarebbe nata che sedici anni dopo. In fondo Robert Johnson vi viene tranquillamente associato e lasciò questa terra nel 1938, ben prima dunque che si cominciasse a parlare di rock’n’roll. No, fatto è che il povero Otis Redding non arrivava a festeggiare il ventisettesimo di compleanno. Periva il 10 dicembre 1967, nello schianto del bimotore che lo stava portando da Cleveland, Ohio, a Madison, Wisconsin, per un concerto, a ventisei anni, tre mesi e un giorno. Nella compagnia di cui sopra si sarebbe trovato in ogni caso fuori posto anche fosse vissuto appena di più, avendo in comune con tutti e tutte un talento immenso ma non il maledettismo. La morte lo coglieva giovane e bello senza che se la fosse andata a cercare. Rubandocelo così presto, cambiava insieme la storia della black music e del suo possibile rapporto con il pubblico bianco: prima vera platea rock, quella del “Monterey Pop Festival” si era fatta conquistare dal nostro uomo giusto pochi mesi prima senza riserve. Ma non vale piangere sul latte versato e gli aerei caduti, abbiamo avuto mezzo secolo per elaborare il lutto e gioire dell’immensità di un lascito rimarchevole per quantità oltre che per qualità. In una storia, quella del soul ante-1968, scandita per lo più da singoli l’artista georgiano si fa notare pure per la consistenza unica della sua discografia a 33 giri: sette, dal più che discreto al molto buono e in mezzo una pietra miliare quale “Otis Blue”, che usciva nel settembre 1965 ed era il terzo. Stratosferico il livello di interpretazioni vocali e parti strumentali così come della scrittura, a renderlo il capolavoro che è contribuisce egualmente l’essere paradigmatico di un canone. Qui quasi ogni Otis possibile: alle prese, raccogliendone l’eredità, con ogni Sam Cooke possibile (politicamente consapevole con Change Gonna Come, ballabile con Shake, romantico in Wonderful World); a suo agio con il soul parimenti sofisticato e occhieggiante al pop di scuola Motown (My Girl dei Temptations) e  quello più viscerale di ascendenza sudista (Down In The Valley di Solomon Burke, You Don’t Miss Your Water di William Bell); in grado di tracciare una precisa linea retta dal blues di Chicago (Rock Me Baby di B.B. King) al coevo rock britannico (Satisfaction dei Rolling Stones). E che dire dei tre brani autografi? Evocazione di sofferenze ataviche, mediazione superba fra spiritual e blues, Ole Man Trouble a momenti sparisce dinnanzi al proclama di fierezza di Respect e alla ballata sentimentale soul per antonomasia, I’ve Been Loving You Too Long.

Quanto agli altri vale tantissimo “Dictionary Of Soul”, del 1966, soprattutto per una prima facciata sul livello di “Otis Blue”: in forza di una Day Tripper che fa ai Beatles ciò che Satisfaction aveva fatto agli Stones, della “canzone triste” più consolatoria di sempre, Fa-Fa-Fa-Fa-Fa (Sad Song), e di un’accorata Try A Little Tenderness. E qualcosina ma non molto di meno “Sings Soul Ballads” del 1965, che è l’album della roca serenata That’s How Strong My Love Is e dell’esuberante (ma con un fondo di tristezza) errebì Mr. Pitiful e quello in cui Otis Redding diventava grande, dopo il debutto dell’anno prima “Pain In My Heart”, ancora acerbo al netto di una delle ballate più belle del Nostro, These Arms Of Mine. Meglio “The Soul Album” (il seguito di “Otis Blue”, 1966; pur lontani i vertici del predecessore si fa apprezzare per la liturgica Just One Day, la martellante Chain Gang, la tenerissima Everybody Makes A Mistake), così come la collezione di duetti con Carla Thomas “King & Queen” (1967; da ricordare, oltre che per la travolgente Tramp, per una When Something Is Wrong With My Baby che surclassa Sam & Dave) e anche “The Dock Of The Bay” (1968), pure un po’ raffazzonato a seguire l’emozionantissimo valzer che inaugura e battezza. Il 33 giri andava al numero 4 della classifica pop di “Billboard”, il 45 al numero 1.

Lo avrete notato: lo scorso 10 dicembre cadevano i cinquant’anni dalla scomparsa del nostro eroe. Era una domenica e la Rhino ha aspettato il venerdì seguente per mandare nei negozi “The Definitive Studio Album Collection”, un box che ne raccoglie l’integrale a 33 giri (giustamente esclusi i discutibili postumi “The Immortal”, “Love Man” e “Tell The Truth”). Ha badato al sodo l’etichetta californiana: ti aspetteresti quantomeno il minimo sindacale, un fascicolo a corredo analogo a quello (ben modesto!) che accompagna il cofanetto di Ray Charles “The Atlantic Years” segnalato in settembre e invece no, a questo giro niente. E però lo sapete che c’è? Che a fronte di un prezzo tanto clamorosamente basso – ho acquistato “The Definitive” sul più noto dei siti di vendita per corrispondenza pagandolo una cifra ridicola: poco più di nove euro a LP – e di una qualità altrettanto clamorosamente elevata lamentarsi stavolta non avrebbe senso e pazienza anche se (vizio tipico da major) le buste interne non sono antistatiche. Ho aggiunto pochi spiccioli al conto e le ho cambiate. Così come ho sostituito con queste nuove le edizioni che avevo, un paio giapponesi e le altre americane, i primi due album in mono, i restanti in stereo. La verità è che Otis Redding era a oggi piuttosto malservito persino dalle stampe d’epoca e in particolare da quelle stereo, spesso penalizzate da un’immagine innaturalmente ampia, la voce su un canale, la più parte della strumentazione sull’altro con fastidiosi dislivelli nel missaggio. La verità è che per Otis Redding funziona infinitamente meglio il mono e la Rhino per il mono ha optato: il punch della batteria, la vigoria degli ottoni, il grasso groove dell’organo, il guizzare della chitarra – e naturalmente “quella” voce – risuonano come mai prima. Vinile silenziosissimo.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.397, marzo 2018.

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Everybody’s Sad Nowadays (per Pete Shelley, 17/4/1955-6/12/2018)

Tolta una recensione negativa di uno degli album frutto di una censurabile rimpatriata, mai avuto occasione di scrivere dei Buzzcocks, per quanto strano possa sembrare e sembrarmi. Ma dio quanto li ho amati.

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The Chills – Snow Bound (Fire)

In una lista di decine di nomi (trentadue per Wikipedia e secondo altre fonti la formazione che nell’87 registrava il primo album “vero” era la decima: in sette anni!) si potrebbe tranquillamente affermare che, tolto il leader e solo punto fermo Martin Phillipps, il componente più influente dei neozelandesi Chills sia stato il batterista con cui incidevano nel 1982 il debutto a 45 giri Rolling Moon. Contribuiva a quello e a null’altro più il povero Martyn Bull, siccome mesi dopo soccombeva alla leucemia e per Phillipps era un evento tanto traumatico da indurlo a cambiare provvisoriamente nome al gruppo. Elaborava il lutto con la mortifera Pink Frost, stupendo ossimoro di canzone nel contempo squillante e tenebrosa e, non avesse firmato che quella, un posto nel Pantheon dei grandissimi del pop-rock chitarristico già lo avrebbe garantito. Un paio di anni ancora e I Love My Leather Jacket – argomento: un giubbotto regalato al Nostro dallo sfortunato batterista – era il brano che apriva alla band le porte del mercato americano. Clamorosamente nei primi ’90 avrebbero girato negli USA in ambito major, ultimi alfieri del college rock nel mentre i R.E.M. ne diventavano le superstar.

Sopravvissuto a quel flirt con il successo vero e soprattutto a certe pessime abitudini, Phillipps tre anni fa riesumava la storica ragione sociale per il primo lavoro a nome Chills del nuovo secolo, “Silver Bullets”, e ora persevera con una collezione tanto concisa – dieci tracce, 33’27” – quanto del tutto all’altezza della sua piccola leggenda. “Snow Bound” si segnala come indispensabile se l’elenco dei vostri amori annovera Smiths, Go-Betweens, Lloyd Cole, House Of Love. Facile però, in tal caso, che pure i Chills siano per voi degli eroi e non abbiate atteso di leggerne qui per catturarlo.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.402, ottobre 2018.

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