Li ho detestati a lungo gli Animal Collective, non riuscendo proprio a capire come potesse il resto del mondo entusiasmarsi per i loro mischioni di folk e noise, minimalismo e raga, elettronica, “pop” stortissimo e psichedelia sversa. Soltanto la lettura di certe recensioni riusciva a irritarmi più dei dischi che incensavano. E poi a un certo punto ha cominciato a piaciucchiarmi il combo di Baltimora. Un attimo ancora e ne ero innamorato, ma erano gli Animal Collective a essere cambiati, scrittura ben focalizzata e arrangiamenti a mirabile orologeria, con giusto un pizzico della stralunatezza d’antan a mantenere deliziosamente “weird” il tutto: “Pet Sounds” post-moderno, “Merryweather Post Pavilion”, del 2009, è uno dei pochi album usciti nel secolo nuovo a potersi dire senza discussione un capolavoro. Secondo me ma non solo secondo me.
La svolta, giacché di svolta si trattò, aveva cominciato a manifestarsi in un lavoro da solista (“Person Pitch”, del 2007), di uno dei due leader del gruppo, Noah “Panda Bear” Lennox. Undicesima prova in studio per la band, “Tangerine Reef” è la prima in cui il Collettivo si schiera a tre, non a quattro, ed è proprio Panda Bear (defezione momentanea per quanto si sa) a mancare all’appello. Prende il comando David “Avey Tare” Portner e quello che era un sospetto si fa certezza: lui l’anima “sperimentale” di un gruppo che in “Tangerine Reef” (colonna sonora di un documentario sulle barriere coralline) peggio che ricade nei vecchi peccati. Non una melodia si sviluppa, non un riff prende forma in tredici tracce indistinguibili e cinquantadue estenuanti minuti a base di elettroniche distorte e voci soffocate e indecifrabili. Altro che Beach Boys! Un incubotico matrimonio fra i Butthole Surfers più inascoltabili e i Tangerine Dream più noiosi.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.402, ottobre 2018.