Archivi del mese: gennaio 2019

La American music di John “fu Cougar” Mellencamp

Nella prima settimana dello scorso mese di dicembre John Mellencamp ha mandato nei negozi quello che Wikipedia conteggia come il suo ventiquattresimo album in studio, “Other People’s Stuff”. Trattandosi di raccolta, oltre che di cover, di materiali in gran parte già editi, a me pare che più correttamente andrebbe contato fra le antologie, ma tant’è. Quando stava per uscire il ventunesimo, “No Better Than This”, ed era anche stato pubblicato da poco il quadruplo “alla carriera” “On The Rural Route 7609”, scrivevo questo articolo per “Il Mucchio”, e per la precisione per Classic Rock, la sua sezione dedicata a brevi monografie di argomento storico e ristampe.

Fa un po’ strano scrivere di un disco in base alle informazioni che se ne hanno ma senza avere ascoltato una nota e sapendo che chi leggerà avrà viceversa avuto agio, essendo l’uscita annunciata per il 17 agosto, di esplorarlo a fondo. Non bastasse: in questa parte di giornale è alle ristampe, o comunque al recupero di archivi come norma vecchi almeno un decennio, che ci si dedica. E tuttavia spendere qualche riga per “No Better Than This” è talmente funzionale (a partire da un titolo fantasticamente arrogante: sotto certi aspetti il nostro eroe per fortuna non cambia mai) a un discorso d’assieme sull’uomo e il musicista Mellencamp che esimersene non si può. Si sa (conferma di un felice e collaudato sodalizio) che è stato prodotto da T Bone Burnett e nel contempo che “produzione” è una parola grossa per un lavoro registrato con un Ampex portatile del 1955, usando un solo microfono, in diretta e in mono e si badi bene che è un disco con la band. Inciso in una sorta di tour di una serie di luoghi americani mitologici: la prima chiesa battista per gente di colore in Georgia, gli studi della Sun a Memphis, la stanza di albergo a San Antonio, Texas, in cui Robert Johnson eternò Sweet Home Chicago. Populista come lui stesso si definisce ma dando al termine un’accezione di sinistra (e per gli standard statunitensi è uno di estrema sinistra), John Mellencamp con questo suo nuovo album rivendica una volta di più l’essere parte di quella tradizione working class che da Woody Guthrie e Pete Seeger arriva a Bruce Springsteen e Steve Earle passando per i Creedence Clearwater Revival, ma facendo sempre salvo l’apporto di Leadbelly come della Carter Family. “Non sono soltanto quello delle canzoni che ascoltate spesso alla radio”, sottolinea con orgoglio, e stiamo parlando di uno che in trent’anni ha piazzato una trentina di titoli nei Top 100 di “Billboard”, un buon terzo dei quali assurto al rango di evergreen. Come potete leggere qui a fianco, è la medesima tesi alla base di “On The Rural Route 7609”, che per quanto materiale contiene di anni recenti esce in parte pur’esso dai paletti all’interno dei quali agisce usualmente Classic Rock. Risolutamente attuale ma radicato nella storia, il nostro uomo si muove su linee temporali che sono sue proprie senza da lungi permettere a nessuno di dettargli scansioni e strategie: non lo convinceranno, se non sarà lui in primis a persuadersi della necessità di una discesa in campo, a candidarsi a senatore per l’Indiana come molti dalle sue parti vorrebbero. Attenda magari dieci anni ancora, si può sommessamente auspicare. Quanto serve per regalarci altri due o tre dischi di vaglia e qualche nuovo classico di American music (per pochi come per costui vale la vecchia etichetta dei Blasters); magari per completare il peculiarissimo musical, Ghost Brothers Of Darkland County, cui sin dal 2000 lavora a quattro mani con Stephen King, niente di meno.

Precoce nella vita (padre per la prima volta a diciannove anni e due mesi), John Mellencamp ebbe come artista una gestazione lenta. “I miei primi cinque LP sono terribili”, ha recentemente ribadito nelle conversazioni dalle quali il critico Anthony De Curtis ha tratto diversi spunti per le note che accompagnano il box summenzionato. “Prendi un Elvis Costello. Ascolti il suo esordio ed è fantastico, in tutta evidenza il prodotto di uno nato con il dono della scrittura. Io non ho avuto una simile fortuna. I miei primi dischi non solo non erano fantastici, non erano nemmeno semplicemente buoni.” Bisogna dirlo: dargli torto non si può. Registrato nel 1975 ma pubblicato solamente nell’autunno dell’anno dopo, “Chestnut Street Incident” è un album che non sa che fare, se restare fedele alle radici New York Dolls del giovanotto o giocarsi la carta del “nuovo Springsteen” (l’iniziale American Dream è imbarazzante per quanto fa il verso al Boss), fra “originali” scipiti e una scelta di cover schizofrenica, da Roy Orbison ai Doors passando per Elvis e i Lovin’ Spoonful. Invece dell’identità anagrafica dell’artefice in copertina campeggia, come da volontà di Tony DeFries (già manager di Bowie nel periodo Ziggy Stardust), uno pseudonimo discretamente ridicolo: Johnny Cougar. Il 33 giri qualcosina vende, però non abbastanza da evitare il licenziamento da parte di una MCA che, dopo avere accantonato un secondo LP già pronto, “The Kid Inside”, una collezione di glam fuori tempo massimo, vigliaccamente lo tirerà fuori dai cassetti nell’83 per lucrare sul successo arrivato. Non a premiare “A Biography” (1978), primo album di sei per la piccola Riva che lo pubblicava solo in Gran Bretagna e Australia. Un assaggino di gloria lo regalava “John Cougar” (si noti l’abolizione del diminutivo; 1979), con il muscolare 45 giri I Need A Lover ad arrampicarsi nelle graduatorie di “Billboard” fino al numero 28. “Nothin’ Matters And What If It Did” (1980) di singoli nei Top 40 ne spedirà due e sarà di platino. Alla fine una stella era nata. Un artista vero non ancora, essendo sostanzialmente i lavori citati fin qui delle copie del primo, sebbene senza più cover, con una scrittura in lenta crescita e l’elemento glam gradualmente emarginato a favore di un rock’n’roll sempre energico ma via via più tipicamente a stelle e strisce.

L’artista John Mellencamp si può dire venga concepito in “American Fool”, uno degli album più venduti del 1982 (quintuplo platino negli USA), e che veda la luce l’anno dopo con “Uh-Huh”. Anche per l’anagrafe: primo suo disco a venire attribuito a John Cougar Mellencamp, primo a schierare nella formazione classica – Larry Crane e Mike Wanchic alle chitarre, John Cascella alle tastiere, Toby Myers al basso e Kenny Aronoff alla batteria – una band di supporto che sarà a lungo la più gioiosa macchina da guerra in azione sui palcoscenici del rock (degna della E Street, degna degli Heartbreakers). Come a volere recuperare in fretta gli anni non perduti e però incerti, usati male, l’ultimo lavoro per la Riva – “Scarecrow” (1985) – e i primi due per la Mercury – “The Lonesome Jubilee” (1987) e “Big Daddy” (1989) – saranno testimoni, coniugando qualità e popolarità (nove milioni complessivi di copie venduti nei soli Stati Uniti), di una maturità sbocciata all’improvviso. Emerge lì il Mellencamp (da “Whenever We Wanted”, del ’91, il detestato alias verrà definitivamente pensionato) che da queste parti tanto amiamo: quello capace di fare rock’n’roll con i violini e le fisarmoniche e country e folk con le chitarre elettriche, di cantare Son House o Van Morrison come di pasticciare con l’elettronica (“Mr. Happy Go Lucky”, 1996) restando costantemente inconfondibile. Un Woody Guthrie fissato con i Rolling Stones. Un John Fogerty che ancora corre nella giungla chiedendosi chi la fermerà la pioggia.

On The Rural Route 7609

Strano ma vero 1: benché possa contare da oltre un quarto di secolo su una delle migliori live band in circolazione, John Mellencamp ha pubblicato a oggi soltanto un disco dal vivo e oltretutto particolare, quel “Life, Death, Live And Freedom” che lo scorso anno recuperava, in versioni mediamente più turgide, poco più di metà scaletta del quasi omonimo “Life, Death, Love And Freedom” del 2008. Strano ma vero 2: incredibilmente per uno dalla carriera così lunga e dal catalogo (da un certo punto in avanti) tanto solido, non c’era a oggi il classico box retrospettivo sull’artista di Seymour, Indiana. Non ne facevano le veci alcune raccolte di successi, la migliore delle quali è la doppia “Words & Music” del 2004, due CD e dentro i trentacinque articoli che si sono conquistati sul campo delle classifiche la qualifica di più popolari del catalogo. Lì una parte consistente del Mellencamp che essendo appassionati di rock, e più in generale di musica americana, non ci si può esimere dal conoscere, ma non tutto. A completare il quadro per chi volesse recuperare l’indispensabile senza rivolgersi agli album provvede ora “On The Rural Route 7609”. Ma la sapete una cosa? In un certo qual senso si può dire che il tipico box retrospettivo del Nostro continui a non esserci e non soltanto letteralmente, trattandosi non di un cofanetto bensì di uno stupendo libro da coffee table con i quattro CD infilati in terzultima e penultima di copertina.

Fatto è che trattasi di una raccolta “alla carriera” di concezione nuova, dove i pezzi più celebri vengono in larga parte ignorati e l’artista recupera invece brani meno considerati, quando non inediti, e con essi disegna un autoritratto insieme complementare e alternativo a quello familiare al grande pubblico. Ciascuno dei dischetti progettato come album a sé (con in sequenza canzoni a volte cronologicamente assai distanti; conta il mood), “On The Rural Route 7609” è felicemente incompleto anche in un altro senso: nel suo privilegiare – come da titolo – il Mellencamp campagnolo all’autore di rock metropolitani. Memento fra le righe che fu quest’uomo a inventarsi, nel 1985, “Farm Aid”.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.674, settembre 2010.

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Graham Parker – Cloud Symbols (100%)

Dice bene il recensore di “Pop Matters”: ventiquattro album in studio (ne conta evidentemente uno di outtake) e Graham Parker ancora canta la stessa canzone (che poi sarebbero almeno le stesse tre o quattro, ma non sottilizziamo). E nondimeno, come un buon whiskey, conserva il suo carattere e merita sempre tornare a sorseggiarlo. Ventiquattro album e non butteresti il più modesto, ma che peccato che solo sette lo abbiano visto affiancato ai/dai Rumour: per costui come la E Street Band per Springsteen, gli Heartbreakers per Tom Petty, gli Attractions per Elvis Costello. Come si sono incaricati di ricordarci nel 2012 e nel 2015 il sesto e il settimo, “Three Chords Good” e “Mystery Glue”, di una serie che piazzava di seguito i primi cinque titoli fra il ’76 e l’80: classici totali di un sound subito accolto dalla critica come una boccata d’aria fresca e altrettanto immediatamente reso obsoleto – apparentemente – dal punk. In realtà senza tempo, mischione di errebì bianco all’anfetamina, ballate soul e rock’n’roll, una spolverata di country, una di reggae. Ma non chiamatelo pub rock, ché Parker non sarà più l’“angry young man” di una volta ma ha sempre detestato l’etichetta e capace che ancora oggi vi piglia a male parole.

La cattiva notizia è che, tranne Martin Belmont, i Rumour qui non ci sono. Una prima buona nuova è che in compenso in sei brani su undici è presente, dopo una vita, la loro sezione fiati. La seconda è che l’assenza si nota meno che altre volte. Merito di una scrittura felice e un suono compatto benché i livelli di energia (fanno eccezione Brushes e Nothin’ From You) siano ben al di sotto delle ultime uscite. Apici da antologia: una Ancient Past che sa di vaudeville, una Dreamin’ felpata con swing, una Love Comes sull’orlo del confidenziale.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.404, dicembre 2018.

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2018: il meglio del resto

16) Neneh Cherry – Broken Politics (Smalltown Supersound)

17) Arctic Monkeys – Tranquility Base Hotel & Casino (Domino)

18) Ray LaMontagne – Part Of The Light (RCA)

19) Ryley Walker – Deafman Glance (Dead Oceans)

20) Yo La Tengo – There’s A Riot Going On (Matador)

21) Cat Power – Wanderer (Domino)

22) Alela Diane – Cusp (AllPoints)

23) Ezra Furman – Transangelic Exodus (Bella Union)

24) Eric Chenaux – Slowly Paradise (Constellation)

25) Idris Ackamoor & The Pyramids – An Angel Fell (Strut)

26) Cave – Allways (Drag City)

27) Sons Of Kemet – Your Queen Is A Reptile (Impulse!)

28) The Chills – Snow Bound (Fire)

29) Jack White – Boarding House Reach (Third Man)

30) Buffalo Tom – Quiet And Peace (Schoolkids)

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I migliori album del 2018 (1): Ty Segall – Freedom’s Goblin (Drag City)

Trentun anni compiuti lo scorso 8 giugno, una somiglianza sempre più spiccata al Billy Corgan ancora biondo, ricciuto e lungocrinito che, diversamente dal nostro eroe, vendeva dischi a milioni (il sospetto è che i due abbiano in comune anche parecchi titoli nelle rispettive collezioni di vinili e CD), nel 2018 Ty Segall ha dato alle stampe, dopo questo che usciva il 26 gennaio e consta di diciannove brani per una durata complessiva di pochi secondi inferiore all’ora e un quarto, altri tre lavori da solista. Esatto. Tre. Se siete dei cultori, e vi siete dunque portati a casa tanto “Joy”, altra ma più succinta rivisitazione di anni ’60 e ’70 assortiti in collaborazione con gli White Fence, che “Fudge Sandwich”, raccolta di cover con dentro di tutto un po’ (dai War agli Sparks, dai Funkadelic ai Grateful Dead, passando per i Gong e gli Amon Düül II e dai Dils a Neil Young), vi starete ora chiedendo che vi siete persi. Vi manca “Orange Rainbow”, un’audiocassetta con dentro tredici tracce di cui sono state distribuite, al pubblico che assisteva a una performance in una galleria d’arte, 55 copie. Uno dei fortunati ha da allora pensato bene di rivendersi la sua su Discogs, a € 175,99. Fatevene una ragione, oppure aspettate che qualcun altro decida di incassare. Tanto potete sempre ingannare il tempo con gli altri due album ancora pubblicati dal nostro eroe nell’arco degli ultimi dodici mesi, no? “Pre Strike Sweep” con i post-punk GØGGS e “The C.I.A.” con l’omonimo trio con la moglie Denee ed Emmett Kelly dei Cairo Gang. Io non li ho ascoltati e non credo nemmeno che li ascolterò. Il mondo non ha bisogno di sei album di Ty Segall all’anno e Ty Segall non dovrebbe farne uscire sei in un anno. Di uno soltanto ogni due anni invece, ma che sia come questo, ne avremmo necessità eccome. Lo brameremmo, allora. E Segall verrebbe riconosciuto per il talento limpido che è – o che sarebbe, non fosse tanto iperproduttivo e dispersivo. Capace che, paradossalmente, venderebbe molti più dischi. Per certo a molte più persone.

“Freedom’s Goblin” è il suo singolo (anche se in vinile è doppio, vista la durata) lavoro da avere. Quello al cui confronto pure i migliori fra i troppi altri paiono minori e roba cui si può rinunciare. A questo proprio no. È come se fosse un “Greatest Hits” dell’autore, a parte che è composto da brani inediti, eccetto uno che rielabora un pezzo già noto. Ed è un po’ il suo “London Calling”, in quanto enciclopedia del rock – principalmente anni ’60 – che più ama. Vi si rinviene dal weird folk all’hardcore, dalla psichedelia più sognante all’heavy metal, ballate alla Beatles e altre cantautorali, schizoidi escursioni no wave e jam alla Crazy Horse, del power pop, persino della disco (squisitamente perversa). Grande è la confusione sotto il cielo? No. Una volta tanto, tutto si tiene. Magnificamente.

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I migliori album del 2018 (2): Kamasi Washington – Heaven & Earth (Young Turks)

Bene chiarirlo subito: il debutto del 2015 “The Epic”, monumentale in ogni senso con le sue complessive diciassette tracce per quasi tre ore di durata, resta insuperato e, probabilmente, insuperabile. Per certo sarebbe stato il mio album dell’anno se solo quell’anno fossi arrivato a compilarla una playlist e invece no, per una ragione che tanti fra quanti mi stanno leggendo conoscono, altri no e non mi va di rievocarla, non ha importanza. Se non per ammettere che, probabilmente, se “The Epic” avesse capeggiato la lista che non ci fu in questa “Heaven & Earth” sarebbe stato presente lo stesso ma lo avrei tenuto più basso, non avrei sentito il bisogno, l’urgenza persino, di collocarlo tanto in bella vista, un gradino appena sotto il più alto del podio. Perché è sì bellissimo, ma un po’ meno di quell’altro. Perché qui dall’ecumenico si rischia ogni tanto di scivolare nell’ammiccante. Perché al giro prima incredibilmente non ne avevi mai abbastanza e a questo il troppo stroppia, essendo il troppo quel disco “nascosto” che fa diventare i sedici brani della scaletta “ufficiale” ventuno e, aggiungendo 38’40” ai precedenti 144’32”, fa superare a “Heaven & Earth” le tre ore sfiorate dal predecessore. Meglio avrebbe fatto il nostro uomo a risparmiarci un trucchetto che un po’ diverte e un po’ irrita, a seconda che tu sia riuscito o meno a estrarre il CD o il vinile sigillati dentro la confezione senza rovinarla troppo. A pubblicare separatamente “The Choice” e anticipando l’album che lo cela in sé, come un secondo mini interlocutorio a seguire il piacevole “Harmony Of Difference”. Ci avrebbe fatto forse preoccupare per la piccola deriva commerciale che segnala, per quel suo eccedere in languori e levigatezze, e sai che sospirone, dopo, ritrovarsi alle prese invece con tutto il resto. L’applauso sarebbe stato ancora più convinto e scrosciante.

Resta il fatto che, non fosse sbucato dalla sua Los Angeles già perfettamente formato e maturo in forza di una lunga gavetta, uno come Kamasi Washington avremmo proprio dovuto inventarcelo. Solo che non ci sarebbe venuto in mente, perché nemmeno l’avremmo considerata la possibilità che qualcuno potesse far diventare/tornare il jazz – il jazz! – alla moda fra le giovani generazioni. Facendo sintesi di un po’ tutto quello che c’è stato fra l’emergere dell’hard bop e, via Coltrane, prima il Miles Davis che si immergeva in mari elettrici e quindi l’Herbie Hancock che partiva per tangenti astrali e nemmeno limitandosi a quello, no: buttandoci dentro funk e cose buone dal mondo, aggiornandolo all’era dell’hip hop evoluto di un Kendrick Lamar, del neo-soul di John Legend, dell’elettronica in cui viene travasato di tutto un po’ di Flying Lotus. Per citare tre con cui ha collaborato. E come si fa, allora, a dire che non inventa nulla? Kamasi è nuovo quasi nella stessa misura in cui è antico e altri già gli si stanno mettendo in scia. Continuino pure a snobbarlo quelli che sostengono che nel jazz odierno ci sono strumentisti più bravi, autori più validi. Hanno ragione, ma hanno torto.

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I migliori album del 2018(3): Dirtmusic – Bu Bir Ruya (Glitterbeat)

All’inizio i Dirtmusic erano un trio formato dagli americani Chris Brokaw e Chris Eckman (dei Walkabouts) e dall’australiano Hugo Race (uno condannato a vita a essere etichettato ex-Bad Seeds, quando vanta una discografia da solista folta e rimarchevole) per suonare in acustico un blues gotico infiltrato di country, o viceversa, recitandoci sopra più che cantandoci. Solo che nel 2008 si ritrovavano al “Festival au Désert”, a Timbuktu, a suonare in jam con i Tamikrest e immediata era la metamorfosi di un sound che si elettrificava, diventando maelstrom spiccatamente psichedelico e insomma la world music più accesamente e visionariamente rock in circolazione. Se ne faceva primo manifesto, nel 2010, il secondo disco dei Nostri, “BKO”, registrato in Mali e con in scaletta fra il resto una stratosferica cover di All Tomorrow’s Parties dei Velvet Underground. Per niente fuori posto. Otto anni e tre album dopo, né Brokaw né i Tamikrest sono più della partita e ci si sposta svariate migliaia di chilometri a ovest, a Istanbul. Non cambia l’eccitazione travolgente trasmessa anche da queste nuove sette tracce, analoghe le suggestioni.

A dar manforte a Eckman e Race sono stavolta i turchi Murat Ertel, leader degli ultralisergici Baba Zula e maestro di chitarra saracena, e Ümit Adakale, percussionista. È a oggi il disco forse più denso e intenso dei Dirtmusic, inquietante in brani come The Border Crossing, scuro funk post-punk con echi persino del Pop Group, una stralunata Outrage, una stridula traccia omonima addirittura in area illbient. Per viaggi un filo meno stressanti in altre dimensioni rivolgersi a una tambureggiante Go The Distance, infiltrata di surf e rock-blues, e all’incantata (la voce è della grandissima Gaye Su Akyol) Love Is A Foreign Country.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.396, febbraio 2018.

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Audio Review n.405

È in edicola da alcuni giorni il numero 405 di “Audio Review”. Contiene mie recensioni degli ultimi album in studio di  Art Brut, Charles Bradley, Rosanne Cash, Cloud Nothings, Current 93,  The Good, The Bad & The Queen, Micah P. Hinson, Orchestra Of Spheres, Pavlov’s Dog, Jon Spencer, The 1975, Jeff Tweedy, Unknown Mortal Orchestra e Ryley Walker, di un live di Neil Young e di una ristampa dei Moody Blues. Nella rubrica del vinile ho scritto in lungo di John & Beverley Martyn e più in breve di Tav Falco.

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I migliori album del 2018 (4): Spain – Mandala Brush (Glitterhouse)

Per quanto io sia parecchio affezionato agli Spain, confesso di avere sbuffato quando nell’elenco delle recensioni assegnatemi per questo numero ha fatto capolino “Mandala Brush”, disco che certamente avrei ascoltato comunque ma di cui francamente non avevo granché voglia di scrivere. Perché, insomma, che noia doversi occupare sempre degli stessi nomi, un’uscita via l’altra, e tanto di più quando l’artista o il gruppo in questione ha trovato una sua strada, definendo un canone sin dalle prime opere e quindi a quello attenendosi, al massimo con aggiustamenti marginali. Diciamolo: a oggi l’album indispensabile degli Spain era quel “The Blue Moods Of” con cui esordivano nel ’95 declinando un peculiare slowcore intriso di jazz in forma di canzone. Se i due lavori successivi svoltavano verso una sorta di folk-rock “da camera”, il gruppo di Josh Haden (figlio di artista e che artista, il compositore e contrabbassista Charlie Haden) trovava poi una sintesi cui restava fedele. Da lungi non inventavano nulla gli Spain. E che poteva inventarsi il critico chiamato immancabilmente a scriverne?

Ebbene: non avrebbe potuto sbalordirmi di più, “Mandala Brush”, album “vero” numero sette per la compagine di Los Angeles e questo sin da un’inaugurale Maya In The Summer con ritmica marziale, chitarre acustiche flamencate, elettriche toste e sinuose e marcate suggestioni Love a permearla. Perfetta introduzione a un capolavoro di psichedelia senza tempo con uno zenit da togliere il respiro nei quindici minuti di una God Is Love fra Popol Vuh e Third Ear Band e a ricordare gli Spain che furono giusto una You Bring Me Up che parte romantica e si impenna errebì e, qui e là, qualche schizzo di jazz. Il loro disco più atipico finisce per diventare il più bello, come minimo alla pari con il lontano debutto.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.404, dicembre 2018.

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I migliori album del 2018 (5): Leon Bridges – Good Thing (Columbia)

Suono che vince si cambia? Tre anni fa “Coming Home”, esordio direttamente su major di questo allora ventiseienne texano, si piazzava alto nelle classifiche di mezzo mondo, ottavo in Gran Bretagna, sesto negli USA (dove era pure candidato ai Grammy, categoria “Best R&B Album”). Nulla da ridire: era una bellissima storia di riscatto per un giovanotto che, prima di scatenare un’asta fra case discografiche giusto postando due demo su Soundcloud, per guadagnarsi da vivere lavava piatti (qualche mese dopo si ritroverà a cantare per Barack Obama). Era anche un bell’album, ma più per la voce, le atmosfere, gli arrangiamenti che a livello di scrittura. In ogni caso, troppo appiattito su un suono revivalista fino al calligrafico, dritto da un luogo e un’epoca precisi: il Sud degli Stati Uniti, pieni anni ’60, in un momento compreso fra due uscite di scena diversamente ma al pari intempestive, quella di Sam Cooke, quella di Otis Redding. Vintage la strumentazione come le macchine usate per registrare, ma vintage persino l’abbigliamento del nostro uomo e, insomma, si rischiava la macchietta.  E allora sì, suono che vince si può cambiare ed è stata un’ottima idea. Pure commercialmente, visto che “Good Thing” ha già sorpassato il predecessore, debuttando al numero 3 nella graduatoria di “Billboard”, sessantamila copie vendute in una settimana e oggi come oggi è tanta roba.

Ma al lettore importerà di più che è artisticamente che surclassa “Coming Home”, restando a suo modo classico ma posizionandosi fra gli anni ’70 di Al Green e gli ’80/’90 di Prince, sfiorando la contemporaneità di D’Angelo o di un Pharrell Williams. Per farsene conquistare non dovrà andare più avanti della seconda traccia: Bad Bad News, favoloso funk con un grandioso inserto di chitarra jazz.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.400, luglio/agosto 2018.

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I migliori album del 2018 (6): Marianne Faithfull – Negative Capability (Panta Rei)

Gran peccato che la pessima voga odierna, che già deprecavo riferendo anche qui del più recente lavoro di Paul Weller, della “Deluxe Edition” istantanea abbia tenuto fuori dalla versione standard del ventunesimo album in studio di Marianne Faithfull Loneliest Person: squisita resa con ritmica squadrata e archi gitani di un brano in origine su uno dei reperti classici della psichedelia britannica, “S.F. Sorrow” dei Pretty Things, avrebbe incrementato il modesto tasso di elettricità di un album che sfodera davvero gli strumenti e i suoni del rock giusto in una tesa They Come At Night che Marianne ha composto a quattro mani con Mark Lanegan. Senza abbassarne di uno zero virgola l’altissima media qualitativa. Poi, certo, si sarebbe trattato di studiare bene a che altezza del programma inserirla, ma non ne sarebbe valsa la pena? Il disco, per chi non sa che le versioni sono due ma soprattutto per gli annali, si congeda con il dolente girotondo pianistico – ma nella voce vibra alla fine come una nota di speranza – di No Moon In Paris e come suggello (chissenefrega delle due pletoriche versioni alternative che nell’edizione espansa seguono Loneliest Person) è comunque perfetto. Meno male – perché già così in tanti lo hanno paragonato, come mood, a “You Want It Darker” di Leonard Cohen e a “Blackstar” di David Bowie – che per chiuderlo l’artista non ha invece optato per la più struggente, letteralmente a passo di marcia funebre, It’s All Over Now, Baby Blue che si ricordi. L’età avanza, i malanni con essa, le amicizie inevitabilmente salutano una via l’altra ma Marianne Faithfull è viva e attiva (nel secolo nuovo siamo al sesto lavoro in studio; più un live) come non mai.

Il classico di Dylan già lo aveva maneggiato in un album “perduto” del suo anno più triste, il 1971, quello seguito a un tentativo di suicidio andato male, e cioè bene, per un nonnulla. Tutta un’altra e inferiore cosa quella interpretazione, resa di pubblico dominio nell’85. Ma ancora più imparagonabile è la nuova As Tears Go By, che al melodramma d’antan sottrae in toto il melò, rispetto all’originale che cantava nemmeno maggiorenne e la rendeva immensamente popolare come la ragazza del clan Rolling Stones. Mozza il fiato. Come del resto l’intero resto di un disco che si potrebbe dire di folk-rock da camera, tessuto in prevalenza con archi gravi, chitarre acustiche lievi, una voce di torba. Accoratamente incantatorio, con una minima concessione all’ammiccamento in una The Gypsy Faerie Queen da cui sbuca Nick Cave e te lo aspettavi, era inevitabile, prima ancora di gettare un occhio ai crediti e scoprire che l’hanno scritta insieme. Viceversa a un non plus ultra di austerità nell’ossessivo minimalismo di Born To Live, una delle ben cinque tracce che Ed Harcourt co-firma.

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