Nella prima settimana dello scorso mese di dicembre John Mellencamp ha mandato nei negozi quello che Wikipedia conteggia come il suo ventiquattresimo album in studio, “Other People’s Stuff”. Trattandosi di raccolta, oltre che di cover, di materiali in gran parte già editi, a me pare che più correttamente andrebbe contato fra le antologie, ma tant’è. Quando stava per uscire il ventunesimo, “No Better Than This”, ed era anche stato pubblicato da poco il quadruplo “alla carriera” “On The Rural Route 7609”, scrivevo questo articolo per “Il Mucchio”, e per la precisione per Classic Rock, la sua sezione dedicata a brevi monografie di argomento storico e ristampe.
Fa un po’ strano scrivere di un disco in base alle informazioni che se ne hanno ma senza avere ascoltato una nota e sapendo che chi leggerà avrà viceversa avuto agio, essendo l’uscita annunciata per il 17 agosto, di esplorarlo a fondo. Non bastasse: in questa parte di giornale è alle ristampe, o comunque al recupero di archivi come norma vecchi almeno un decennio, che ci si dedica. E tuttavia spendere qualche riga per “No Better Than This” è talmente funzionale (a partire da un titolo fantasticamente arrogante: sotto certi aspetti il nostro eroe per fortuna non cambia mai) a un discorso d’assieme sull’uomo e il musicista Mellencamp che esimersene non si può. Si sa (conferma di un felice e collaudato sodalizio) che è stato prodotto da T Bone Burnett e nel contempo che “produzione” è una parola grossa per un lavoro registrato con un Ampex portatile del 1955, usando un solo microfono, in diretta e in mono e si badi bene che è un disco con la band. Inciso in una sorta di tour di una serie di luoghi americani mitologici: la prima chiesa battista per gente di colore in Georgia, gli studi della Sun a Memphis, la stanza di albergo a San Antonio, Texas, in cui Robert Johnson eternò Sweet Home Chicago. Populista come lui stesso si definisce ma dando al termine un’accezione di sinistra (e per gli standard statunitensi è uno di estrema sinistra), John Mellencamp con questo suo nuovo album rivendica una volta di più l’essere parte di quella tradizione working class che da Woody Guthrie e Pete Seeger arriva a Bruce Springsteen e Steve Earle passando per i Creedence Clearwater Revival, ma facendo sempre salvo l’apporto di Leadbelly come della Carter Family. “Non sono soltanto quello delle canzoni che ascoltate spesso alla radio”, sottolinea con orgoglio, e stiamo parlando di uno che in trent’anni ha piazzato una trentina di titoli nei Top 100 di “Billboard”, un buon terzo dei quali assurto al rango di evergreen. Come potete leggere qui a fianco, è la medesima tesi alla base di “On The Rural Route 7609”, che per quanto materiale contiene di anni recenti esce in parte pur’esso dai paletti all’interno dei quali agisce usualmente Classic Rock. Risolutamente attuale ma radicato nella storia, il nostro uomo si muove su linee temporali che sono sue proprie senza da lungi permettere a nessuno di dettargli scansioni e strategie: non lo convinceranno, se non sarà lui in primis a persuadersi della necessità di una discesa in campo, a candidarsi a senatore per l’Indiana come molti dalle sue parti vorrebbero. Attenda magari dieci anni ancora, si può sommessamente auspicare. Quanto serve per regalarci altri due o tre dischi di vaglia e qualche nuovo classico di American music (per pochi come per costui vale la vecchia etichetta dei Blasters); magari per completare il peculiarissimo musical, Ghost Brothers Of Darkland County, cui sin dal 2000 lavora a quattro mani con Stephen King, niente di meno.
Precoce nella vita (padre per la prima volta a diciannove anni e due mesi), John Mellencamp ebbe come artista una gestazione lenta. “I miei primi cinque LP sono terribili”, ha recentemente ribadito nelle conversazioni dalle quali il critico Anthony De Curtis ha tratto diversi spunti per le note che accompagnano il box summenzionato. “Prendi un Elvis Costello. Ascolti il suo esordio ed è fantastico, in tutta evidenza il prodotto di uno nato con il dono della scrittura. Io non ho avuto una simile fortuna. I miei primi dischi non solo non erano fantastici, non erano nemmeno semplicemente buoni.” Bisogna dirlo: dargli torto non si può. Registrato nel 1975 ma pubblicato solamente nell’autunno dell’anno dopo, “Chestnut Street Incident” è un album che non sa che fare, se restare fedele alle radici New York Dolls del giovanotto o giocarsi la carta del “nuovo Springsteen” (l’iniziale American Dream è imbarazzante per quanto fa il verso al Boss), fra “originali” scipiti e una scelta di cover schizofrenica, da Roy Orbison ai Doors passando per Elvis e i Lovin’ Spoonful. Invece dell’identità anagrafica dell’artefice in copertina campeggia, come da volontà di Tony DeFries (già manager di Bowie nel periodo Ziggy Stardust), uno pseudonimo discretamente ridicolo: Johnny Cougar. Il 33 giri qualcosina vende, però non abbastanza da evitare il licenziamento da parte di una MCA che, dopo avere accantonato un secondo LP già pronto, “The Kid Inside”, una collezione di glam fuori tempo massimo, vigliaccamente lo tirerà fuori dai cassetti nell’83 per lucrare sul successo arrivato. Non a premiare “A Biography” (1978), primo album di sei per la piccola Riva che lo pubblicava solo in Gran Bretagna e Australia. Un assaggino di gloria lo regalava “John Cougar” (si noti l’abolizione del diminutivo; 1979), con il muscolare 45 giri I Need A Lover ad arrampicarsi nelle graduatorie di “Billboard” fino al numero 28. “Nothin’ Matters And What If It Did” (1980) di singoli nei Top 40 ne spedirà due e sarà di platino. Alla fine una stella era nata. Un artista vero non ancora, essendo sostanzialmente i lavori citati fin qui delle copie del primo, sebbene senza più cover, con una scrittura in lenta crescita e l’elemento glam gradualmente emarginato a favore di un rock’n’roll sempre energico ma via via più tipicamente a stelle e strisce.
L’artista John Mellencamp si può dire venga concepito in “American Fool”, uno degli album più venduti del 1982 (quintuplo platino negli USA), e che veda la luce l’anno dopo con “Uh-Huh”. Anche per l’anagrafe: primo suo disco a venire attribuito a John Cougar Mellencamp, primo a schierare nella formazione classica – Larry Crane e Mike Wanchic alle chitarre, John Cascella alle tastiere, Toby Myers al basso e Kenny Aronoff alla batteria – una band di supporto che sarà a lungo la più gioiosa macchina da guerra in azione sui palcoscenici del rock (degna della E Street, degna degli Heartbreakers). Come a volere recuperare in fretta gli anni non perduti e però incerti, usati male, l’ultimo lavoro per la Riva – “Scarecrow” (1985) – e i primi due per la Mercury – “The Lonesome Jubilee” (1987) e “Big Daddy” (1989) – saranno testimoni, coniugando qualità e popolarità (nove milioni complessivi di copie venduti nei soli Stati Uniti), di una maturità sbocciata all’improvviso. Emerge lì il Mellencamp (da “Whenever We Wanted”, del ’91, il detestato alias verrà definitivamente pensionato) che da queste parti tanto amiamo: quello capace di fare rock’n’roll con i violini e le fisarmoniche e country e folk con le chitarre elettriche, di cantare Son House o Van Morrison come di pasticciare con l’elettronica (“Mr. Happy Go Lucky”, 1996) restando costantemente inconfondibile. Un Woody Guthrie fissato con i Rolling Stones. Un John Fogerty che ancora corre nella giungla chiedendosi chi la fermerà la pioggia.
On The Rural Route 7609
Strano ma vero 1: benché possa contare da oltre un quarto di secolo su una delle migliori live band in circolazione, John Mellencamp ha pubblicato a oggi soltanto un disco dal vivo e oltretutto particolare, quel “Life, Death, Live And Freedom” che lo scorso anno recuperava, in versioni mediamente più turgide, poco più di metà scaletta del quasi omonimo “Life, Death, Love And Freedom” del 2008. Strano ma vero 2: incredibilmente per uno dalla carriera così lunga e dal catalogo (da un certo punto in avanti) tanto solido, non c’era a oggi il classico box retrospettivo sull’artista di Seymour, Indiana. Non ne facevano le veci alcune raccolte di successi, la migliore delle quali è la doppia “Words & Music” del 2004, due CD e dentro i trentacinque articoli che si sono conquistati sul campo delle classifiche la qualifica di più popolari del catalogo. Lì una parte consistente del Mellencamp che essendo appassionati di rock, e più in generale di musica americana, non ci si può esimere dal conoscere, ma non tutto. A completare il quadro per chi volesse recuperare l’indispensabile senza rivolgersi agli album provvede ora “On The Rural Route 7609”. Ma la sapete una cosa? In un certo qual senso si può dire che il tipico box retrospettivo del Nostro continui a non esserci e non soltanto letteralmente, trattandosi non di un cofanetto bensì di uno stupendo libro da coffee table con i quattro CD infilati in terzultima e penultima di copertina.
Fatto è che trattasi di una raccolta “alla carriera” di concezione nuova, dove i pezzi più celebri vengono in larga parte ignorati e l’artista recupera invece brani meno considerati, quando non inediti, e con essi disegna un autoritratto insieme complementare e alternativo a quello familiare al grande pubblico. Ciascuno dei dischetti progettato come album a sé (con in sequenza canzoni a volte cronologicamente assai distanti; conta il mood), “On The Rural Route 7609” è felicemente incompleto anche in un altro senso: nel suo privilegiare – come da titolo – il Mellencamp campagnolo all’autore di rock metropolitani. Memento fra le righe che fu quest’uomo a inventarsi, nel 1985, “Farm Aid”.
Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.674, settembre 2010.