Quante vite ha vissuto il londinese Daniel Blumberg per non avere che ventotto anni, che erano appena diciotto quando i Cajun Dance Party erano una delle sensazioni indie britanniche con il loro energico pop alla Belle & Sebastian e ventuno quando gli Yuck si accodavano al revival shoegaze con grinta e scrittura bastanti a non farli dire meri epigoni. Che il giovanotto, che li aveva fondati insieme a un altro transfuga dalla precedente formazione, Max Bloom, ne fosse il perno e l’anima era eloquentemente chiarito dal calo qualitativo vistoso che marcava, rispetto all’omonimo e brillante esordio del 2011, il successivo di due anni e deludente “Glow & Behold”, realizzato dopo che il Nostro già aveva lasciato la compagnia e aggiunto al curriculum una raccolta di ballate pianistiche a nome Oupa. In effetti il suo primo progetto da solista, seguito a breve da un secondo chiamato Hebronix, dove si rimetteva a tracolla chitarre tanto acustiche che elettriche. Produzione firmata da Neil Michael Hagerty, fu Royal Trux, ed echi evidenti di Neil Young un po’ ovunque nel debutto rimasto senza un seguito “Unreal”. Svolta successiva che più radicale sarebbe arduo immaginare: come un ingresso in clandestinità, con un darsi all’improv con serate al Cafe Oto insieme al collettivo che lì fa base e un paio di carbonare uscite in coppia, come GUO, con il sassofonista Seymour Wright. Nel mentre si impegnava sul fronte delle arti figurative, del disegno in particolare, riscuotendo consensi notevoli, addirittura ritrovandosi con delle opere esposte da Christies. Musica accantonata per una carriera di almeno pari soddisfazioni e più remunerativa? Macché.
All’inizio dello scorso marzo la Mute, che sin dal 2015 ne deteneva le edizioni, annunciava di avere posto Blumberg sotto contratto. Registrato in cinque giorni con la prestigiosa regia di Peter Walsh, un contrabbassista e un duo d’archi del giro Oto, il sassofonista dianzi menzionato e Jim White dei Dirty Three alla batteria, “Minus” ha visto la luce (poca) in maggio. Nel frattempo, l’autore si era fatto mollare dalla fidanzata storica e aveva subito un ricovero in una clinica per malattie mentali. Che da questi sette brani che sfilano in tre insieme lineari e aggrovigliati quarti d’ora saettino frecce di inquietudine che colpiscono al cuore non meno delle melodie insidiose, ci sta.
Se solo volesse, Daniel Blumberg potrebbe diventare una star. Parlano chiaro in tal senso la pianistica The Fuse, che prima di arrendersi a una chitarra elettrica ustionante evoca l’Elton John maggiore, e la ballata fra country, blues e valzer Stacked, quasi una scheggia di Neil Young circa “Harvest”. Non fosse che le separano i 12’33” di Madder, stralunata epopea dal rarefatto al tambureggiante che prova un paio di volte a farsi canzone prima di letteralmente disfarsi, rovinosamente. Prima: una traccia omonima di gusto coheniano e ossessività struggente. Dopo: il cigolante carillon folk Permanent; il pop da camera e da cameretta The Bomb; la corale liturgica dal Vangelo secondo King Ink Used To Be Older. Daniel Blumberg potrebbe diventare una star, non fosse più interessato a farsi e farci il cuore a pezzi e poi ricucirlo, sangue che cola nei solchi.