“Necessity is the mother of invention” ma talvolta la gestazione può farsi particolarmente lunga. Se in passato Jason Pierce aveva messo fino a quattro anni e mezzo (abbondanti) fra due album – tanto passava dall’uscita di “Amazing Grace” all’appalesarsi di “Songs In A&E” – stavolta per dare un seguito a “Sweet Heart Sweet Light” ne ha impiegati sei e cinque mesi. Blocco dello scrittore? Solite smanie perfezionistiche che da sempre lo inducono a mixare, remixare e remixare ancora i suoi dischi? Per poi remixare di nuovo perché insoddisfatto di risultati che per chiunque rappresenterebbero il massimo. Nevrosi che peraltro si estende pure alle confezioni dei lavori: leggendariamente, quando la creatura Spiritualized era appena bambina e lui un ex-Spacemen 3 (quello meno talentuoso: che equivoco!) fece slittare per mesi la pubblicazione di un live, oltretutto venduto solo per corrispondenza, perché insoddisfatto dell’effetto cromatico della copertina e di una foto che vi compariva. Ma a questo giro il perfezionismo non c’entra. Anzi: sì. Accadeva che la fase preparatoria per “And Nothing Hurt” andava per le lunghe, l’autore entrava in contrasto con il produttore designato (non uno qualunque: Youth) e buttava via praticamente tutto il già registrato per ricominciare daccapo. Problemino: si era così già giocato il budget. Dindin quasi finiti e allora che fare? Investiva il poco rimasto in un laptop e una copia di Pro Tools e imparava – lentamente, faticosamente – a far da sé. Principalmente, a costruire le gonfie orchestrazioni cruciali nel canone Spiritualized un infinitesimale campionamento, tratto da incisioni di musica classica, alla volta. Soltanto in dirittura di arrivo ha potuto permettersi di tornare in uno studio di registrazione professionale per aggiungere gli altrettanto consueti cori e qualche altra parte al di là delle sue capacità di strumentista. Si nota tutto ciò all’ascolto? Ma manco per idea.
Si potrebbe dire: l’ennesimo (oddio: otto in ventisei anni) album degli Spiritualized. Esatto. Sound che, dacché nel 1997 “Ladies And Gentlemen… We Are Floating In Space” li fece assurgere all’Olimpo dei Classici, è stato al più rifinito e mai snaturato, una scrittura come al solito solida è tranquillamente bastata per riservargli un posto in questa playlist. Anche perché, per quanto se fossimo su “Pitchfork” sarebbe questione di due o tre decimali di punto, siamo a livelli superiori rispetto al disco prima e una maggiore concisione risulta ulteriormente premiante. Se a conti fatti il brano capolavoro è il più lungo – The Morning After: 7’42” in transito da una psichedelia festosa a uno squassante garage rock velvetiano – in precedenza si stagliano come diversamente indimenticabili almeno una I’m Your Man che sa tanto di Leonard Cohen non solo per il titolo e una Let’s Dance che parte Brian Wilson e arriva Mercury Rev. Dopo, una Sail On Through un po’ valzer e un po’ blues.
super!!!! https://turrefazioni.wordpress.com/2018/09/11/retronow-lo-spazio-alla-fine-del-mondo/