Gran peccato che la pessima voga odierna, che già deprecavo riferendo anche qui del più recente lavoro di Paul Weller, della “Deluxe Edition” istantanea abbia tenuto fuori dalla versione standard del ventunesimo album in studio di Marianne Faithfull Loneliest Person: squisita resa con ritmica squadrata e archi gitani di un brano in origine su uno dei reperti classici della psichedelia britannica, “S.F. Sorrow” dei Pretty Things, avrebbe incrementato il modesto tasso di elettricità di un album che sfodera davvero gli strumenti e i suoni del rock giusto in una tesa They Come At Night che Marianne ha composto a quattro mani con Mark Lanegan. Senza abbassarne di uno zero virgola l’altissima media qualitativa. Poi, certo, si sarebbe trattato di studiare bene a che altezza del programma inserirla, ma non ne sarebbe valsa la pena? Il disco, per chi non sa che le versioni sono due ma soprattutto per gli annali, si congeda con il dolente girotondo pianistico – ma nella voce vibra alla fine come una nota di speranza – di No Moon In Paris e come suggello (chissenefrega delle due pletoriche versioni alternative che nell’edizione espansa seguono Loneliest Person) è comunque perfetto. Meno male – perché già così in tanti lo hanno paragonato, come mood, a “You Want It Darker” di Leonard Cohen e a “Blackstar” di David Bowie – che per chiuderlo l’artista non ha invece optato per la più struggente, letteralmente a passo di marcia funebre, It’s All Over Now, Baby Blue che si ricordi. L’età avanza, i malanni con essa, le amicizie inevitabilmente salutano una via l’altra ma Marianne Faithfull è viva e attiva (nel secolo nuovo siamo al sesto lavoro in studio; più un live) come non mai.
Il classico di Dylan già lo aveva maneggiato in un album “perduto” del suo anno più triste, il 1971, quello seguito a un tentativo di suicidio andato male, e cioè bene, per un nonnulla. Tutta un’altra e inferiore cosa quella interpretazione, resa di pubblico dominio nell’85. Ma ancora più imparagonabile è la nuova As Tears Go By, che al melodramma d’antan sottrae in toto il melò, rispetto all’originale che cantava nemmeno maggiorenne e la rendeva immensamente popolare come la ragazza del clan Rolling Stones. Mozza il fiato. Come del resto l’intero resto di un disco che si potrebbe dire di folk-rock da camera, tessuto in prevalenza con archi gravi, chitarre acustiche lievi, una voce di torba. Accoratamente incantatorio, con una minima concessione all’ammiccamento in una The Gypsy Faerie Queen da cui sbuca Nick Cave e te lo aspettavi, era inevitabile, prima ancora di gettare un occhio ai crediti e scoprire che l’hanno scritta insieme. Viceversa a un non plus ultra di austerità nell’ossessivo minimalismo di Born To Live, una delle ben cinque tracce che Ed Harcourt co-firma.
Assolutamente d’accordo su Loneliest Person. Per il resto album bellissimo, straziante… quando lo ascolto è come se mi guardassi allo specchio. Il mio numero uno.