Probabile che non se ne accorga nessuno, ma proprio nei giorni in cui questo numero di “Audio Review” raggiungerà le edicole uno dei più importanti agitatori culturali dell’ultimo mezzo secolo americano compirà settant’anni. Agitatore culturale e dunque politico, sì, in primo luogo. Poi musicologo. E solo in terza istanza straordinario chitarrista, ottavo (per quanto possano valere certe classifiche) nella lista dei cento campioni dello strumento che stilava nel 2003 “Rolling Stone”. Qualche lettore potrà legittimamente dissentire, rovesciando le posizioni in questo mio personale podio, e mi sia allora permesso di argomentare. Ricordando per cominciare che nel 1972 Ry Cooder, perché è di lui che stiamo parlando, sceglieva per aprire “Into The Purple Valley”, suo secondo LP da solista dopo un omonimo esordio in cui aveva riletto fra il resto Woody Guthrie e un classico dell’era della Grande Depressione quale How Can A Poor Man Stand Such Times And Live? di Alfred Reed, un brano di Agnes “Sis” Cunningham. A dire il vero, Cooder ignorava che la fondatrice dei Red Dust Players e di quella bibbia del folk di oltre Atlantico che fu “Broadside” fosse l’autrice di How Can You Keep Moving (Unless You Migrate To) e lo indicava come “traditional” (l’errore, presente nella prima edizione, verrà corretto nelle successive ristampe), ma non ha importanza. Conta il concetto alla base di una canzone che risolveva come stridula marcetta: in genere non si emigra per scelta bensì per necessità e la politica non può fermare ciò che l’economia ha innescato. Qualcuno lo spieghi al muratore Donald Trump. A proposito: rileggo quanto scrissi su queste pagine recensendo nel 2012 il disco che è a oggi l’ultimo di Cooder, “Election Special”, e mi scappa da ridere agro quando mi scopro a definire Mitt Romney il peggiore candidato alla presidenza mai espresso dal partito repubblicano.
Ryland Peter Cooder nasce a Los Angeles il 15 marzo 1947, da padre statunitense e madre italiana, e le origini conteranno senz’altro qualcosa in una concezione del mondo con al centro la fecondità del meticciato. Che è l’unico filo conduttore che lega una vicenda artistica che, dopo averlo visto federatore di una musica dalle mille radici quale è quella popolare americana, lo vedrà collaborare con Vishwa Mohan Bhatt come con Ali Farka Touré, con i Chieftains come con Manuel Galbán, e nel mezzo regista dell’operazione Buena Vista Social Club. E di sicuro molto contava pure l’incontro, giovanissimo, con uno spirito affine, praticamente un suo gemello di colore, Taj Mahal, con cui condivideva l’avventura precoce e acerba ma intrigante dei Rising Sons, quintetto fra folk-rock e country-blues elettrico che registrava nel 1966 un 33 giri che la Columbia pagava solo per inverecondamente tenerlo in un cassetto fino al ’92. Talento precocissimo, avendo messo le mani per la prima volta su una chitarra treenne, Ry arriva al debutto in proprio datato 1970 con un curriculum pazzesco per uno che ha ventitré anni: è stato il fulcro della prima Magic Band di Captain Beefheart (sua l’elettrica in “Safe As Milk”), ha prestato la sua abilità di strumentista al Randy Newman di “12 Songs” e a Judy Collins in un tour che ha fruttato un live, ha collaborato con Van Dyke Parks come con i Little Feat e, quel che più conta, a lungo è stato una sorta di sesto (o meglio settimo, contando Ian Stewart) uomo nei Rolling Stones: Love In Vain (su “Let It Bleed”) e Sister Morphine (su “Sticky Fingers”) i contributi più importanti. In “Ry Cooder” e in “Into The Purple Valley” il nostro eroe comincia a elaborare un manifesto del folk in senso lato d’America tanto più “suo” perché in luogo di scrivere (fintanto che non si darà alle colonne sonore – formidabile carriera “a latere” che a momenti mi stavo dimenticando – sarà quasi sempre interprete, rarissimamente autore) sceglie e peculiarmente si appropria, pescando in un catalogo sterminato. Sono lavori già intriganti, ma il colpo da maestro – il capolavoro, a detta di una critica praticamente unanime al riguardo – lo piazza dopo averlo lungamente preparato, nel 1974, con “Paradise And Lunch”. Lì folk, blues, soul e gospel, e un pizzico di jazz, si mischiano inestricabilmente in un assieme ineffabilmente coeso. Nessuno come Cooder ha saputo sistemare tanto armoniosamente nello stesso album, chiarendo come siano parte della medesima tradizione, cose così diverse: il funky-gospel di Married Man’s A Fool, un Blind Willie McTell riletto come fosse The Band, e una processione antifonale da Esercito della Salvezza quale Jesus On The Mainline; il Bobby Womack già rifatto dagli Stones e ora girato in calypso di It’s All Over Now e lo schietto blues elettrico If Walks Could Talk; una Tattler di gusto caraibico e infiltrata di archi e il Burt Bacharach trasferito sul serio sul Border di Mexican Divorce; per suggellare il tutto, avendo aperto con la collisione fra spiritual e dixie prossima a tante cose Hot Tuna di Tamp ’Em Up Solid, con lo strepitoso duetto fra la sua acustica e il piano ragtime di un gigante del jazz quale Earl Hines di Ditty Wah Ditty.
Ecco: la forza di “Paradise And Lunch” sta anche nel suo essere affresco in una certa misura collettivo. Nell’interazione fra il titolare e una ritmica quanto mai fantasiosa (con il batterista Jim Keltner la collaborazione sarà assai proficua, giungendo fino ai giorni nostri) come nell’esplosività delle ricche parti corali, negli interventi misurati di archi e ottoni e in quelle tastiere che ora dialogano e ora legano. Produzione magistrale perché per niente intrusiva di Russ Titelman e Lenny Waronker, “Paradise And Lunch” è fresco di riedizione su Speakers Corner ed è una stampa favolosa, che supera in scioltezza la pur ottima edizione tedesca anni ’80 (su quella USA d’epoca avrei un tot da ridire) che già avevo in casa. “Spumeggiante” è l’aggettivo che meglio si attaglia a un’incisione con voci che scappano da tutte le parti, corde che danzano, una ritmica agile e squadrata nel contempo, più sul versante dello swing che su quello del groove. Se questo mese vi avanzano 32 euro, non saprei consigliarvi un modo migliore di spenderli.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.385, marzo 2017. Ry Cooder spegne oggi settantadue candeline.
L’ha ribloggato su l'eta' della innocenza.