Non è più di questo mondo (ammesso lo fosse prima, ammesso lo sia mai stato) uno degli artisti più geniali – e forse quello dalla parabola più singolare – dell’ultimo, abbondante mezzo secolo. Lo celebro ripescando le recensioni di una sua bella quanto difettosa raccolta e di quello che, tolte due colonne sonore, è adesso in ogni senso il suo ultimo album. Una collaborazione con i Sunn O)))! Niente di meno.
Classics & Collectibles (Mercury, 2005)
È un tondo decennio che attendiamo un nuovo album, dopo quell’alieno capolavoro chiamato “Tilt”, da Noel Scott Engel, in arte Walker, e non è nemmeno ancora l’intervallo più lungo posto da costui fra un disco e l’altro giacché il suddetto “Tilt” di anni di gestazione ne ebbe undici. Mettere una bottiglia da parte per il 2006? Si potrebbe, ma senza farsi troppe illusioni. Forse aspetteremo ancora di più. Forse il nostro uomo ci sta prendendo in giro e, inoltratosi ormai da un po’ nei sessanta, è andato in pensione senza dirlo a nessuno e fingendo di continuare a lavorare a quella singola canzone o due in un anno. Meglio non farlo sapere ai sempre più numerosi iscritti a un club di ammiratori che conta Julian Cope e i Blur, i Radiohead e i Coral e ancora Pulp, Smog, Tindersticks, Lambchop. Unica come la sua musica – uneasy listening se mai ve n’è stato uno – la parabola di Walker, da idolo delle ragazzine a oggetto di un ristrettissimo culto che giusto nel quarto di secolo in cui ha prodotto la miseria di due album (ma che album!) si è gradualmente allargato, fino alla discretamente diffusa popolarità odierna. Chi ha i diritti su un catalogo nonostante tutto cospicuo – siccome il Nostro da giovane arrivò a pubblicare cinque LP in due anni, a cavallo fra ’68 e ’69, all’immediato indomani dello scioglimento di quei Walker Brothers rivali in fama dei Beatles – osserva sornione e ricicla.
È appena dell’anno scorso il quintuplo “5 Easy Pieces”, cui dedicammo un paio di estasiate pagine. “Classics & Collectibles”, doppio, da un lato giunge propizio per coloro che non azzardarono un acquisto così impegnativo, dall’altro, con le sue numerose sovrapposizioni e però il bel gruzzolo di cose mai riversate in digitale che le accompagna, farà infuriare chi invece aveva già posto mano al portafoglio. Tant’è e paiono oltretutto lunari i criteri di scelta di una scaletta che si scapicolla su e giù nel tempo, essendo i “collectibles” sul serio tali ma mancando diversi “classics” all’appello (ma stavolta The Sun Ain’t Gonna Shine Anymore, il superhit dei Fratelli, c’è). Dove è inattaccabile è sul piano della qualità, sebbene sia un ritratto incompleto – era un Burt Bacharach che cantava Brel facendosi produrre da Phil Spector, è diventato uno Schubert travestito da Van Morrison, un’impossibile mutazione di Robert Johnson in Wagner via Brian Eno e questo manca – quello che offre. Ma se ancora non conoscete Scott Walker preparatevi a farvi stregare lo stesso da questi profluvi d’archi e dal melò che avanza irrestistible al proscenio fra squilli di tromba. E poi andatevi a comprare “Tilt”.
Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.616, novembre 2005.
Scott Walker & Sunn O))) – Soused (4AD, 2014)
Pazzesca la parabola di Scott Walker, come nessun’altra nella musica sia colta che popolare del Novecento: da idolo per teenager poco dopo il giro di boa dei ’60, alla testa di quei Walker Brothers indecisi fra l’essenzialità del beat e i fronzoli di Tin Pan Alley, a cantante confidenziale in un finale di decennio in cui si trasformava in una sorta di Burt Bacharach che cantava Brel facendosi produrre da Phil Spector, con successo dapprincipio ancora enorme ma via via decrescente. E poi una terza vita dedicata a scolpire, con intervalli lunghissimi a separarli l’uno dall’altro, inclassificabili e avanguardistici capolavori capaci di unire idealmente Robert Johnson a Brian Eno via Wagner muovendosi fra Nick Cave e Bartók, Schubert e Van Morrison e no, se non li avete mai ascoltati non potete proprio immaginarveli. Ho citato Eno ed eccolo l’ideale punto di contatto fra costui e il duo formato nei secondi ’90 dai chitarristi Stephen O’Malley e Greg Anderson: pur’essi unici, campioni del doom metal più doom di sempre e da un certo punto in poi autocatalogatisi alla voce – un ossimoro – “power ambient”. Fermo restando che mai Eno ha declinato musica della annichilente intensità dei Sunn O))).
Insomma: sulla carta la collaborazione fra Walker, O’Malley e Anderson prometteva di essere l’album di uneasy listening più uneasy a memoria d’uomo e alla resa dei conti non è così, per quanto non si tratti certo di una ricetta per tutti. Nondimeno i cinque lunghi brani che vi sfilano in cinquanta minuti netti più che terrorizzanti sono (a volumi medio-bassi) incantatori, con quell’inconfondibile baritono a stagliarsi su tappeti di bordoni occasionalmente sfrangiati da stridori industrial che ne spezzano l’effetto mantrico. Si potrebbe persino dirla new age, per quanto ossianica.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.357, novembre 2014.
Grandissima perdita