Tanti auguri a uno degli uomini più stilosi che mai abbiano calcato i palcoscenici del rock e del pop. Lo celebro recuperando una scheda sui Roxy Music che mi venne commissionata per “Extra” e le recensioni di un loro live postumo e di un paio di uscite del Ferry solista. Ivi compresa una che mi fa scoprire che nel ’99 (però già tre anni dopo aggiustavo il tiro) avevo una non buona opinione dei Roxy post-Brian Eno. Dimostrazione fra le ahimé tante che anche il Venerato Maestro in vita sua ne ha scritte di fregnacce.
Roxy Music – Country Life (Island, 1974)
Sontuose modelle hanno campeggiato sulla copertina dei tre album precedenti e su quella del quarto i Roxy Music scelgono di raddoppiare, oltretutto facendo indossare alle due piacenti signorine biancheria intima che nulla lascia all’immaginazione. Colta da uno di quei soprassalti bacchettoni che sovente la prendono, nel bel mezzo del decennio di più sfrenati eccessi sessuali che si ricordi l’America si indigna e censura. È tutta benvenuta pubblicità per Byan Ferry e compagni che, da subito stelle su questo lato dell’Atlantico, su quell’altro hanno fino a quel punto faticato a farsi notare. “Country Life” è il loro primo 33 giri a entrare nei Top 40 USA, forte certo dello scandalo ma soprattutto di un variegato mazzo di canzoni (dal brechtiano al rock’n’roll) che, senza tralasciare del tutto le pulsioni avanguardistiche dell’era Eno, alla raffinatezza di scrittura e arrangiamenti uniscono un’immediatezza inedita.
Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.22, estate 2006.
Roxy Music – Concerto (Fruit Tree, 2001)
Se non siete vissuti su Marte negli ultimi anni ve ne sarete accorti: lo sdoganamento della disco music è stato ormai completato e non solo in rapporto ai vari generi dance – house e techno in primis – succedanei. Pure la più seria critica rock, che al tempo tanto esecrò tale stile bollandolo degenerazione del funky (che era stato bollato come degenerazione del soul, varrà ricordare e si potrebbe proseguire), lo ha rivalutato. Sul finire dei ’70 (e così sarà per un buon decennio dopo) bastava viceversa un tocco di negritudine in più nel mix per fare censurare con la più infamante delle accuse, il volere essere commerciali, anche nomi in precedenza riveriti. Toccò pure ai Roxy Music, che nel 1979 si ripresentavano alla ribalta dopo un triennio sabbatico. Riascoltato oggi “Manifesto”, sebbene inferiore ai successivi “Flesh + Blood” e “Avalon”, non pare affatto quel disastro di cui si scrisse al tempo e, francamente, neppure così danzereccio.
Ascoltati oggi i Roxy Music che lo portarono in tour (questo doppio vinile racconta in massima parte uno spettacolo a Denver nell’aprile di quell’anno) non sembrano granché distanti dalle edizioni precedenti del dopo-Brian Eno e da quelle che verranno. “Concerto” decolla con i brani portanti di “Manifesto” (la title track, Angel Eyes, Trash) e si mantiene in quota con un gruzzoletto di classici fra cui spiccano versioni eccellenti di In Every Dream Home A Heartache e Do The Strand. È insomma il gruppo di sempre: pop progressivo al livello più alto che mai sia stato concepito. Varrà la pena di ricordare che “Roxy” è crasi di “rock” e “sexy”. Bryan Ferry e compagni non se lo sono mai dimenticato.
Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.474, 19 febbraio 2002.
Bryan Ferry – As Time Goes By (Virgin, 1999)
Tanto vale cominciare con una confessione: non ho mai amato il Bryan Ferry solista, pur apprezzandone qualche estemporanea performance (tipo una A Hard Rain’s Gonna Fall tanto artefatta da trovare un riscatto nei suoi eccessi melò). Mi ha sempre infastidito l’arroganza con cui si è appropriato di classici altrui presumendo che bastasse una bella voce a giustificare accostamenti azzardati e dischi di assoluta incoerenza. E gli stessi Roxy Music dopo Eno non hanno fatto molto che valesse quei primi due fenomenali 33 giri. Giusto “Avalon”, intimamente forse anche vacuo ma di inappuntabile eleganza formale.
In fatto di eleganza “As Time Goes By” non teme raffronti. E siccome per la prima volta il Nostro ha saputo disegnare uno scenario unitario sul quale fare agire le canzoni, siccome le canzoni stesse sono tutte, di loro, gigantesche e siccome la voce mostra ancora meno rughe di un volto sì giovanile da fare sospettare patti faustiani, ne è venuto fuori il suo album migliore di sempre fra quelli in proprio. Invincibilmente fuori moda e fascinoso come il brano che lo inaugura e lo battezza, che è quello che in Casablanca Rick Blaine/Humphrey Bogart invitava ossessivamente Sam/Dooley Wilson a suonare ancora una volta. Canzone da guancia contro guancia che stabilisce il tono di un lavoro che ci trasporta in un mondo pre-rock’n’roll di orchestrine jazz e buoni sentimenti, omaggiando più volte Cole Porter (Miss Otis Regrets, You Do Something To Me, Just One Of Those Things), evocando Marlene Dietrich con una struggente Falling In Love Again e congedandosi con una September Song (Kurt Weill) che vale qualunque altra interpretazione possa venirvi in mente. Ottimi anche i suoni.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.197, dicembre 1999.
Bryan Ferry – Frantic (Virgin, 2002)
Nel 1999, con “As Time Goes By”, Bryan Ferry confezionava uno degli episodi migliori di una carriera solistica a momenti trentennale (la prima uscita in proprio di un anno e mezzo posteriore all’esordio del gruppo che gli ha dato la fama) e certamente il più coeso e meglio caratterizzato. Elegante escursione in un mondo pre-rock’n’roll di orchestrine jazz e buoni sentimenti, il disco si aggirava fra classici – da Cole Porter a Kurt Weill – porgendone letture più affettuose che ironiche e mai sopra le righe. Evento notevole per un interprete che nel kitsch ha spesso sguazzato. Tre anni e una rimpatriata dei Roxy Music dopo, Ferry torna ai suoi standard con un album diviso fra cover e brani suoi e in saliscendi vertiginoso fra picchi pure notevoli e deprimenti vallate che rimandano a quell’involontaria parodia dei Roxy che furono i neo-romantici. Esemplari in tal senso la voce operatica su passo marziale di Ja Nun Hons Pris, il melò gotico di San Simeon, la magniloquenza pura di I Thought. Anche una Hiroshima che sa di Ultravox orfani di John Foxx, non redenta dalla chitarra di Jonny Greenwood dei Radiohead, uno dei tanti ospiti di una schiera che annovera fra gli altri Brian Eno, Dave Stewart e Chris Spedding.
Detto di una Goddess Of Love la cui capacità seduttiva ha la meglio sull’imponenza dell’arrangiamento, di una Goodnight Irene (di Leadbelly) con tanto di violino e fisarmonica, bella ma fuori posto, i vertici sono una volta di più costituiti da due omaggi a Bob Dylan: un’elettrica It’s All Over Now, Baby Blue in apertura e poco più avanti una Don’t Think Twice, It’s All Right per voce e piano che vale da sola il prezzo del biglietto. È come sentire Elvis cantare il gospel a Las Vegas, in una serata di grazia.
Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.485, 7 maggio 2002.
Quanto vorrei vedere questo galantuomo in una puntata dell’ ispettore Barnaby, intento ad interpretare se stesso tra una canzone e un efferato delitto.
Io dei Roxy Music posseggo solo il classico “For Your Pleasure”, con Brian Eno ancora in formazione. Quale disco mi consigli dei Roxy post-Brian Eno, visto che mi sembra di capire che tu li abbia rivalutati alla grande?
“Country Life”, se ne vuoi solo uno. Però per “Avalon” ho maturato nel tempo un affetto speciale.
la coerenza è la virtù di quelli cui non resta altro. Sia benedetta l’incoerenza e la capacità di mutare – con cognizione di causa – opinione! E quante volte, nella vita di chissà quanti ascoltatori cum grano salis, ciò è accaduto (a me centinaia…)
Non sono un grande fan neanch’io dei dischi solisti del Bryan, forse perchè cresciuto fianco a fianco con quelli ottantiani, un pò belli senz’anima, più che algidi, frigidi Ma concordo con l’assoluta grandezza di ‘As Time Goes By’.
Io adoro “Dylanesque”, ma non ebbi sfortunatamente la possibilità di scriverne.
ne avevo letto così e cosà, a questo punto il tuo parere (che per me è sempre cassazione) obbliga ad andare a toccare con orecchio
“Dylanesque” è un CAPOLAVORO, e bene ha fatto – poteva del resto Egli fare altrimenti? – il Venerato Maestro a includere “Positively 4th Street”, gemma di questo album, nella lista delle sue cover di Dylan preferite.