Si potrebbe cominciare dando i numeri ed è difficile dire se impressioni di più centodieci oppure ottocento. I primi sono i brani piazzati nei Top 10 USA dalla Motown e dai marchi ad essa affiliati fra il ’61 e il ’71. Per intenderci: la sola lista dei titoli – senza nemmeno metterci vicino gli interpreti! – occuperebbe quattro pagine. I secondi sono i dollari che Berry Gordy, padre padrone della casa di Detroit, si faceva prestare nel 1959 da due sorelle (una delle quali da lì a due anni sposerà un ancora sconosciuto Marvin Gaye) per passare da una parte all’altra della barricata musicale, trasformandosi da autore (rimarrà un lucroso hobby) in discografico. Faceva di meglio che restituirli con robusti interessi, visto che quella che a un certo punto fu un’industria a sé nel già gigantesco contesto dell’industria discografica statunitense nei suoi anni più fortunati fu decisamente un family affair: ci lavoravano il padre di Berry, entrambi i fratelli e le tre sorelle. Un altro numero significativo: cresciuta rapidissimamente grazie a risultati commerciali subito eccezionali, quella che dapprincipio si chiamava Tamla e sin dal 1960 si faceva bina con la nascita della Motown già nel ’64 gestiva ulteriori cinque marchi, tre in ambito soul/rhythm’n’blues, uno in area jazz e addirittura uno country. Nel tempo, il conteggio delle etichette satellite arriverà all’ennesima cifra strabiliante, venticinque, e qui finiscono le certezze e si entra letteralmente nel campo dell’incommensurabile.
Probabile che qualcuno abbia fatto il conto esatto dei brani firmati da ciascuno dei vari team di autori – i più celebri Holland/Dozier/Holland, Whitfield/Strong e Ashford/Simpson – che resero la Tamla Motown un’autentica fabbrica di successi, ma per quante ricerche abbia fatto non sono riuscito a trovare dati attendibili. Quello che purtroppo nessuno sarà mai in grado di compilare è un elenco delle canzoni in cui suonò una house band che andava sotto il nome di Funk Brothers e che non ebbe nemmeno per un istante la gloria di una ribalta tutta per sé. Verrebbe da dire, parafrasando Churchill, che mai nella storia della musica così pochi hanno fatto così tanto per così tanti ricavandone così poco. Agli interpreti la gloria e guadagni discretamente lauti, agli autori il grosso dei soldi che non andava a Gordy, ai turnisti (notare il nome stesso) niente più di un dignitoso stipendio. E del resto: stiamo o non stiamo parlando di un’impresa nata e cresciuta nella città dell’automobile – e dunque di una catena di montaggio che eleva a paradigma l’anonimato dell’artefice – per antonomasia? Meno male che a rendere loro un minimo di giustizia (in qualche caso purtroppo postuma) ha provveduto sei anni fa il documentario Standing In The Shadows Of Motown: stupendo effetto collaterale di un imponente programma di riordino di archivi che, principiato nell’ormai lontano 1992 con il quadruplo “Hitsville USA – The Motown Singles Collection 1959-1971” (da allora immancabile in qualunque elenco di cofanetti “classici”), si è avviato a toccare un apice probabilmente insuperabile partendo dal gennaio 2005. Vedeva allora la luce “The Complete Motown Singles Vol.1: 59-61”. Lo scorso febbraio è arrivato nei negozi quello dedicato al 1969, il nono, e fra quadrupli, quintupli e sestupli abbiamo toccato quota quarantanove CD (avete letto bene), della durata media di sessantacinque minuti cadauno.
Detto di confezioni sontuose (libri regolarmente sopra le cento pagine e un 45 giri infilato nelle prime di copertina), sarà il caso di chiarire e sottolineare che è stato per via di un prezzo non proprio economico (dai cento euro in su e anche questi sono numeri) e del loro ovvio rivolgersi a un pubblico in tutti i sensi di élite che su queste pagine ci si era finora limitati a qualche segnalazione. Una precisa scelta. Siccome però si è prossimi (mancano due tomi) a un fatale 1971 che spostava il raggio d’azione della premiata ditta Gordy dai singoli agli LP nell’esatto istante nel quale traslocava pure la sua sede principale (da Detroit a Los Angeles e nulla sarebbe più stato lo stesso) era arrivato il momento di spendere qualche parola in più. Limitarsi comunque a una pagina è stata un’altra scelta precisa, giacché in nessun modo negli spazi di questa sezione di questo mensile, che prevede che a un argomento di pagine se ne possano dedicare al massimo due, sarebbe stato possibile svolgere un discorso compiuto su un pezzo così importante di storia socio-culturale, oltre che musicale, del Novecento americano. Sarebbero serviti i ben più ampi orizzonti del trimestrale a noi collegato, “Extra”, per inquadrare ad esempio un canone uniforme e studiato sin nei minimi dettagli: dalla scelta di accentuare determinate parti ritmiche a scapito di altre all’adesione al modello di chiamata e risposta del gospel, dalla presenza debordante di sezioni di archi e ottoni alla preminenza melodica del basso sulle chitarre, al costante mantenimento di schemi di base elementari (regola aurea riassunta dall’acronimo KISS: “Keep it simple, stupid!”) a fronte di arrangiamenti imponenti quanto sofisticati. E poi e soprattutto: per raccontare come fu che l’etichetta più nera di sempre conquistò il pubblico degli adolescenti bianchi, in apparenza andandogli incontro e nella sostanza restando nerissima per filosofia e scopi (mai slogan fu più azzeccato di quel suo “The Sound Of Young America”). Sarebbero serviti altri orizzonti e dentro quelli prima o poi ci muoveremo. Prendetela come una promessa.
Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.646, maggio 2008. Berry Gordy compie oggi novant’anni. È andato in pensione l’anno scorso.