Che la ragazza avesse le palle fu subito chiaro: far sopravvivere una carriera in sboccio a un debutto televisivo, a “Saturday Night Live”, assai discusso non è da tutte o tutti, così come reggere contrattaccando alle recensioni irridenti che ne salutavano il debutto (era inizio 2012) “Born To Die”. Un po’ figlie dell’oggettiva debolezza del lavoro e un po’ di un equivoco, la collocazione dell’artista in area “alternative” quando era pop cantautorale, molto più Fiona Apple che Anna Calvi. Un milione e mezzo di copie vendute dopo (solo negli USA! dove è rimasto nei Top 200 oltre cinque anni; le vendite mondiali superano gli otto milioni), oltre a ridere “all the way to the bank” la cantautrice newyorkese mostrava intelligenza (o furbizia, secondo i detrattori) collaborando per il successivo, del 2014, “Ultraviolence” con un nome riveritissimo nell’underground quale Dan Auerback (Black Keys) e, a popolarità inalterata, la sua reputazione se ne giovava. D’altra parte: era pure cresciuto il livello della scrittura, dando a intendere che sotto l’immagine imbronciata ci fosse della sostanza.
Cinque anni e tre album dopo si sta assistendo curiosamente a un’inversione a u per quanto riguarda la critica: in estasi per “Norman Fucking Rockwell!” e magari la Del Rey starà facendo gesti scaramantici. Non il capolavoro già spacciato da taluni, è nondimeno la sua prova più ispirata, in giusto equilibrio fra raffinatezza e immediatezza, ammiccamenti (Mariner’s Apartment cita Elton John e Leonard Cohen ma pare Neil Young) ed episodi davvero sorprendenti come Venice Bitch, 9’37” sull’orlo della psichedelia. Se The Greatest è una ricreazione di radio FM USA anni ’70 il congedo pianistico Hope Is A Dangerous Thing… potrebbe appartenere alla migliore Kate Bush.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.413, ottobre 2019.
Questa recensione dice più dei critici musicali che del disco, mi sembra. E va bene così.