A un certo punto degli anni ‘90, non ricordo esattamente quando ma presumo all’inizio, i critici di “Rolling Stone” decisero di votare “the best album of the 80’s”. Finirono bizzarramente per individuarlo in “London Calling”, lavoro pubblicato ancora nel 1979, sebbene verso la fine. A rappresentare un decennio veniva dunque designata un’opera uscita in quello precedente, errore non solo cronologico ma prospettico, siccome il doppio dei Clash non riflette le tendenze al crossover e al superamento del rock emerse negli ‘80 (pietra di paragone “Remain In Light” dei Talking Heads) quanto un’ansia catalogatoria volta a definire, in luogo che a ridefinire, il canone del rock’n’roll. Come campione di quel decennio (e pure dei ’90!) avrebbero potuto benissimo scegliere, invece, il triplo “Sandinista!”, pubblicato esattamente un anno dopo (e quindi, a essere pignoli, anch’esso ancora un disco degli anni ’70, come del resto “Remain In Light”): ingombrante, ineguale (le ultime due facciate sono superflue) e tuttavia esemplare di una voglia irresistibile di andare oltre il rock e certamente oltre (la distinzione non è questione di lana caprina: rivolgersi per delucidazioni a Keith Richards) il rock’n’roll. Logico, inevitabile – pena il reazionario tornare indietro di cui si renderanno colpevoli i Clash senza Mick Jones dell’ignobile “Cut The Crap” – passo successivo a un album che è un perfetto riassunto del primo quarto di secolo di vita del rock.
Suscitò scandalo, “London Calling”, fra i punkettari che avevano preso sul serio il niente Elvis o Rolling Stones nel 1977 e non avevano compreso che la rivoluzione indotta dal punk stava tutta nell’atteggiamento mentale piuttosto che nella musica, che come ben sapevano i Clash al massimo aggiornava, magari mischiandoli, stili già largamente metabolizzati, dal garage di metà ’60 ispirato dai primi Who e Kinks al pub rock, passando per Stooges ed MC5. Tutt’altro che innovativa, quindi, e destinata a mostrare il suo volto passatista non appena rinchiusa, violandone lo spirito per rispettarne la lettera, nel carcere del purismo. Per aprire le porte del quale chi invece di quello spirito si era imbevuto si trovò fondamentalmente a scegliere fra due opzioni: l’incremento esponenziale di velocità e durezza che genererà l’hardcore; lo sganciamento dalla tradizione del rock’n’roll attuato recuperando materiali ad essa estranei come il dub, il krautrock e l’elettronica, che verrà rubricato alla voce new wave. I Clash, con “Sandinista!”, opteranno per una terza via: consci del fatto che il rock, oltre a essere musica popolare, non è che una delle tante musiche popolari, lo dissolveranno in un calderone di influenze quanto mai eterogenee. Non prima di averlo celebrato come mai a nessuno è riuscito con “London Calling”.
Album immenso al di là dello straordinario livello di scrittura e persino al di là della magistrale enciclopedizzazione che attua di molto di quanto accaduto da Elvis in avanti, sciorinando rockabilly (Brand New Cadillac) e soul (Train In Vain), beat (I’m Not Down) e musica latina (Spanish Bombs), reggae (The Guns Of Brixton, Lover’s Rock, Revolution Rock) e ska (Rudie Can’t Fail, Wrong ‘Em Boyo), avvicinando New Orleans (Jimmy Jazz), la Detroit del ’69 (la title track, Four Horsemen) e la Londra del ‘77 (Hateful, Clampdown, Death Or Glory, Koka Kola). Ma non è per questo – non solo, almeno – che è l’album che sottrarrei alla distruzione dovendone scegliere uno solo per spiegare alle generazioni future cosa fu il rock e perché, nonostante i suoi limiti artistici e culturali, fu importante. È che a vent’anni dall’uscita trasmette ancora (figuratevi cosa fu ascoltarlo allora) una tensione ideale fortissima, una fede nella forza redentrice della musica che nel mondo odierno (post-rock, sul serio) non è più possibile provare. Retorici, i Clash? Utopici, piuttosto. Sognatori e innocenti. Gli ultimi legittimati dai tempi a esserlo.
Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.17, ottobre 1999.
ciao Eddy, non sono tanto d’accordo con “le ultime due facciate sono superflue” per sandinista – chissà se hai cambiato idea a proposito. un disco talmente enorme nel quale, dopo 30 anni che lo posseggo, trovo sempre qualcosa di nuovo. sull’isola deserta porterei sicuramente London Calling, ma Sandinista e Combat Rock mi mancherebbero tanto (il lato 2 di combat rock è incredibile, sembra una summa di Sandinista, con quella chiusura altrettanto incredibile che è “death is a star”. ).
Mauro
“Superflue” magari non lo riscriverei. Resta il fatto che siamo di fronte a una contraddizione irrisolvibile: la logorrea fa parte della cifra stilistica di “Sandinista!” e insieme lo danneggia. Dico che quelle due facciate sarebbero dovute uscire a parte e allora avrebbero avuto un altro senso, nel lungo solco della tradizione giamaicava della Dub Version.
Si può dire che London Calling è un ossimoro?
Tutt’altro che innovativo ma disco seminale come pochi?
“London Calling” è davvero enciclopedico in un epoca in cui ancora lo si poteva essere con ragione di causa. Ma se lo si ascolta bene ci sono già i semi di “Sandinista!”: nelle sempre più pronunciate aperture alla Giamaica, per esempio, e in cose amorevolmente sbilenche devote alla black music come “the right profile”. Se la si ascolta di seguito, la discografia dei Clash è un progressivo staccarsi dal punk dopo averlo in parte codificato. Per poi spingersi persino oltre il rock, come dice il VMO.
Noto adesso il post di una new entry che si chiama come me. Come funziona, in questi casi?
Potresti aggiungere il tuo cognome. O firmarti, se non vuoi usare il cognome, Mauro C.
Detto da un ignorante: uno dei dischi più belli che abbia mai ascoltato. E cominciai per errore dalla fine: ” A Train In Vain”.