I migliori album del 2019 (13): Jessica Pratt – Quiet Signs (Mexican Summer)

Jessica Pratt è in giro – discograficamente; le prime canzoni le aveva scritte cinque anni prima, ventenne – dal 2012, ma allora non me ne accorsi. Mi giustifica che il primo, omonimo album vide la luce solo in vinile e in cinquecento copie per un’etichetta appositamente fondata da Tim Presley? Credo di sì. Mentre per il seguito del 2015 e su Drag City, “On Your Own Love Again”, devo appellarmi alla clemenza della corte, sperando che riconosca come attenuante che verso fine anno, periodo in cui cerco di recuperare i dischi sulla carta interessanti che non sono riuscito ad ascoltare fin lì, ero sfortunatamente impegnato a recuperare altro: una vita più o meno normale dopo un incidente che non starò a rievocare, perché chi sa sa e chi non sapeva, be’, è finita bene. Abbastanza. “On Your Own Love Again” l’ho ascoltato per la prima volta su YouTube giorni fa (idem “Jessica Pratt”) e non è male (idem “Jessica Pratt”), però “Quiet Signs” è un’altra cosa: un miracolo, o tipo (datemi retta, in materia ho fatto pratica). Avverto che da qui in poi mi rivolgerò a un lettore che, a giudicare dal poco che frequento i social (la mia cosiddetta “bolla”), so esser raro: a chi non ascolta venti album nuovi a settimana (minimo sindacale) e a ciascuno dedicando il tempo bastante ad assimilarlo a sufficienza da poterlo, ponderatamente, giudicare. Nel mentre si è immerso in due o tre serie TV rigorosamente non ancora arrivate in Italia (o soltanto con i sottotitoli) e ha fatto suoi due o tre romanzi e altrettanti saggi. Lui “Quiet Signs” l’ha certamente ascoltato il giorno dell’uscita, l’8 febbraio, e al riguardo certamente postò qualcosa, il 7. Ma ero distratto, perdonatemi.

Ora che siamo rimasti in pochi mi tocca confessarvi l’inconfessabile: stante una limitata presenza nelle playlist (qualche centinaio) che ho scorso da inizio dicembre mi sarei perso pure “Quiet Signs” non fosse che “Mojo” (ancora compro e leggo riviste, come voi, ritenendole mediamente più affidabili di Facebook) ha incluso uno dei suoi brani in un CD allegato a uno degli ultimi numeri. “Quiet Signs” ho così cominciato a frequentarlo partendo dalla seconda delle sue nove tracce: As The World Turns. Me ne sono innamorato, salvo scoprire che è la meno rappresentativa, quella che con la sua asciuttezza estrema più somiglia a predecessori che giustificano paragoni con Sibylle Baier qui meno calzanti. Non è che nel resto del programma l’artista californiana si porga barocca dopo due lavori in bassa fedeltà per sole voce, chitarra acustica e involontarie (qui invece, nella prima opera immortalata in una sala d’incisione comme il faut, sapientemente ricreate) stanze d’eco. Ma già le due linee di piano – una cupa e solenne, l’altra vivacemente sentimentale – che disegnano l’iniziale Opening Night certificano che questo è un mondo nuovo e un talento che era in nuce è pienamente sbocciato. E giustifica altri rimandi importanti: a un Caetano Veloso che sapeva di Nick Drake senza saperlo in Fare Thee Well e a un Nick Drake idealmente dialogante con Joni Mitchell in Poly Blue. Alla Karen Dalton dolcemente più desolata in Silent Song. Laddove This Time Around è di nuovo tropicalismo ma traslocato in paesaggi brumosi, Crossing un minuetto da Alice in un paese di psichedeliche meraviglie che si dissolvono, nell’esatto istante in cui accennano a prender corpo, nella conclusiva Aeroplane. Che manca? Ah sì, Here My Love, che d’accordo è ancora Sibille, ma con una spuma d’archi da risacca pigra, quando la marea ha appena preso a salire. Solamente 27’48”. Perfetto.

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