Come Gil Scott-Heron e Linton Kwesi Johnson, la ventinovenne Jamila Woods ha cominciato a pubblicare i suoi versi su carta ben prima di pensare che appoggiarli a una base musicale ne avrebbe incrementato la potenza, facendoli viaggiare in luoghi dove se no non sarebbero mai arrivati. E come poetessa ha ottenuto riconoscimenti importanti, ritrovandosi inclusa in alcune delle principali antologie americane della prima metà di un decennio in cui la svolta si materializzava giusto all’ingresso nella seconda metà. Era il 2016 quando un attivismo volto a rivendicare il ruolo degli afroamericani nella cultura del paese in cui i loro avi sbarcarono in catene si vedeva per la prima volta tradotto in canzoni, in “HEAVN” (per i titoli delle sue creazioni la Woods usa sempre solo caratteri in maiuscolo). Opera dapprima pubblicata soltanto in forma liquida dalla minuscola Closed Sessions e a renderla disponibile in CD e vinile provvedeva sorprendentemente un’etichetta adusa a licenziare tutt’altro, fra le principali in USA in ambito indie, per quanto in un’accezione vasta del termine che va dal cantautorato a cose sperimentali, via rock.
È sempre la Jagjaguwar a portare ora nei negozi un seguito che segna per l’artista di Chicago un significativo passo in avanti in termini di qualità della scrittura – ed è allo spartito che mi riferisco – e fruibilità dell’assieme. Voce che ricorda un po’ Erykah Badu, Jamila Woods omaggia qui dodici eroi ed eroine del suo popolo. Una due volte ed è Betty Davis, celebrata nel brano che inaugura e chiude – in versioni agli opposti: la prima downtempo, la seconda house – il disco. Ci si muove fra funk e rap, pop, soul e rhythm’n’blues. Lo zenit è BASQUIAT: aperta da un basso wave e una chitarra psichedelica, si distende poi su un jazzato groove hip hop.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.410, giugno 2019.
Ci sta : / mi rimane il dubbio che venga incensata anche oltre il suo reale potenziale e valore e musicale. Curioso per un eventuale seguito