Diversamente dalla telefonata di una vecchia pubblicità, una buona recensione evidentemente non allunga la vita. Neanche molte buone recensioni – collezione impressionante: le migliori di una carriera lunga formalmente un quarto di secolo ma in realtà interrottasi dieci anni prima dell’uscita di un disco che da ripartenza, com’era stato inteso fors’anche dall’autore, si è tragicamente trasformato in addio – hanno potuto. E chissà se David Berman ne ha letto qualcuna nei ventisei giorni trascorsi fra la pubblicazione dell’album e quando si è tolto la vita. Si è impiccato il 7 agosto scorso, tre giorni prima dell’inizio di un lungo tour americano (vi ricorda qualcuno?) cui avrebbe dovuto andarne dietro, fra febbraio e marzo di quest’anno, uno europeo. Deve essere stato l’impulso sfortunatamente irreversibile di un momento a indurre al gesto fatale chi ore prima, in un’intervista via e-mail, aveva scritto all’interlocutore di resilienza, mostrandosi a tratti scherzoso, concludendo addirittura pronosticando al giornalista, che gli aveva confessato soffrire di depressione, che certamente un bel giorno si sarebbe scoperto capace di essere di nuovo felice. “Che razza di sorpresa sarà, vedrai.” Già.
Sarò sincero. Ho in casa mezza discografia dei Silver Jews ma non ne sono mai stato un gran cultore. Ne recensii pure un paio di quei sei album, tiepidamente. Mi piacevano all’inizio, quando furono scambiati per una costola dei Pavement nonostante si fossero formati prima, e mi piacque (abbastanza) il congedo del 2008 “Lookout Mountain, Lookout Sea”: lontanissimo dallo sgangherato lo-fi degli esordi, una buona prova di cantautorato alt-country ma, insomma, i capolavori sono un’altra cosa. Tipo “Purple Mountains”, un esorcismo trasformatosi in testamento. Disco cui il nostro uomo lavorava sin dal 2014 (risale ad allora la stesura della torpida I Loved Being My Mother’s Son, in memoria della madre appena scomparsa) e ci aveva provato più volte a dargli forma, invano. Una versione con Dan Bejar dei Destroyer nel per lui inedito ruolo di produttore veniva accantonata e questo più o meno all’altezza (2016) dell’incisione di un album con i Black Mountain pure esso scartato. Giungevano in soccorso prima Stephen Malkmus, poi Jeff Tweedy, infine Dan Auerbach, e nemmeno con loro Berman trovava la quadra. A rivelarsi decisivo era l’incontro con Jeremy Earl e Jarvis Taveniere dei Woods e il resto è – sarà – Storia.
Perché che si sia in presenza di un classico è evidente sin dalle prime battute di That’s Just The Way That I Feel, honky tonk dove un organo chiesastico incongruamente e sublimemente pesa quanto il pianoforte tipico del genere. È mai parsa più seducente che in una orecchiabilissima All My Happiness Is Gone l’infelicità? È mai stato il naufragare fra gli oscuri marosi dell’esistenza più dolce che in Darkness And Cold? È o non è Snow Is Falling In Manhattan la più bella canzone che Leonard Cohen non ha scritto? È la quarta delle dieci tracce in scaletta e, conversando con Andrew Male di “Mojo”, l’autore sosteneva essere soddisfatto di quelle e basta. Quando Margaritas At The Mall, con i suoi fiati mariachi e tanto altro ancora che rimanda a Townes Van Zandt, una She’s Making Friends, I’m Turning Stranger degna del miglior Gram Parsons e la confidenziale Nights That Won’t Happen (che ne avrebbe fatto Sinatra!) se non appartengono appieno all’Ineffabile quantomeno bussano alla sua porta. Dopo una Storyline Fever sull’orlo dell’euforia (!) “Purple Mountains” saluta con la scintillante ballata Maybe I’m The Only One For Me: una lezione riguardo all’imparare ad amarsi di cui David Berman non ha saputo fare – purtroppo per lui e per noi – tesoro.
Non lo conoscevo. Ho gli occhi lucidi. Corro a comprarlo.
Caro Eddy, grazie per la tua puntuale disamina annuale. Non so perché, ma il disco dei Purple Mountain oggi costa molto, in Rete. Aspetterò qualche giorno; non l’avevo ancora comprato. Sono anche contento di non aver visto il mattonazzo di Nick Cave nella tua classifica dei migliori 15. Nel rispetto della sua sofferenza, preferisco, finché possibile, vivere con levità.
Ciao.
P.S.
Ho acquistato anche il libro di Alberto Castelli; grazie per la segnalazione. Mi spiace dire che vi ho trovato un sacco di refusi, ma sceglierò di guardare la luna, e non il dito.
Ho letto il libro di Castelli in bozze, non ce l’ho ancora in cartaceo, e mi era stato assicurato che gli innumerevoli refusi erano stati corretti. Mi spiace assai apprendere che ne sono rimasti molti, evidentemente troppi. Ed è un vero peccato.
Ascolto questo disco dal giorno in cui è uscito e mi ha rubato subito il cuore. Sarà forse perché, a differenza tua o Venerato, a me i Silver Jews sono sempre piaciuti. Questo però è veramente un altro pianeta. Applausi a scena aperta per un capolavoro che da oggi dovrà finire in ogni lista dei più belli di sempre. Alla faccia di quelli che ripetono che la musica si è fermata al momento in cui loro hanno smesso di ascoltarla. Grazie per la lista dove ho trovato sostegno e conforto in alcuni casi a scelte già fatte ed interessanti consigli in altri. Se mi posso permettere, in risposta al nostro amico, posso dire che a me quel “mattonazzo” di Nick Cave è piaciuto ma siamo nel campo dei gusti personali. Adesso, per andare a vivere con levità, mi vado a sparare di nuovo il disco dei Sunn O))). Naturalmente a volume improponibile. Attenderò poi con stoica rassegnazione la lettera dell’amministratore…
Caro Paolo,
non volevo certo sminuire il valore del disco di Cave, che pure ho inserito nella mia discoteca. E’ solo che la vita è già pesante di suo, e ogni giorno che passa mi avvicina all’immobilità della pietra (ovviamente parlo per me). Gaudeamus igitur.
Caro Sonicfeli, non mi permetto di fare il maestro di nessuno sopratutto su questo blog che un Maestro, e che maestro, già ce l’ha. Era solo un commento da “snob del cazzo” che ogni tanto non riesco a controllare… Per farmi perdonare ti consiglio il disco di Robert Forster che ho consumato. Quando hai voglia di magnifica leggerezza. Ciao.
Per tacer di quanto è bello “Grant & Io”.
Grazie Paolo, non mancherò di approfondire. Accidenti, un altro disco… Ma sono solo io che ho problemi di spazio in casa?
David Berman se n’è andato il giorno del mio 35esimo compleanno. Così questo disco è letteralmente entrato nella mia vita, si è radicato come un testamento, una confessione disperata eppure piena di autorevolezza e dignità. Per me è più di un disco dell’anno, è qualcosa in cui a volte cerco rifugio, come se mi fosse di conforto.
Ho scritto qualche riga sul mio blog, In Retrospettiva, nel caso ti andasse di leggerla…
Album eccezionale…Vera poesia in musica, leggere i testi per credere… che vita Mr. David Berman! E’ arrivato al gesto più estremo mentre nel frattempo tutte le sue certezze si sgretolavano, un matrimonio finito, la morte dell’amata madre, un padre da sempre odiato perché commerciante di armi e quindi di morte. Opera permeata per certi versi di un’euforia mortifera, di un senso di indicibile immanente, controbilanciata dall’ironia disillusa del personaggio e dalla musica veloce e frizzante presente nella maggior parte delle tracce. Ogni volta che ascolto quest’album è come una prima volta, entra nella pelle, nelle ossa e nelle carni perché ha la forza dei classici, perché David ha una voce incredibile, perché parla della natura e delle miserie umane…davvero un ca-po-la-vo-ro.