Archivi del mese: marzo 2020

Blow Up n.263

Se siete stati saggi e avete approfittato dell’offerta che reclamizzavo qui, il numero di “Blow Up” di aprile dovrebbe già essere nella vostra buca delle lettere e con esso il diciottesimo volume della collana “Director’s Cut”, Captain Beefheart – Avventure nel Vlietnam, di Riccardo Bertoncelli. In caso contrario avete ora un’ottima scusa per prendere una (breve) boccata d’aria e raggiungere la più vicina edicola, dovete troverete senz’altro la rivista e, con un po’ di fortuna, anche il libro. Mi raccomando: quando uscite non dimenticate di portare con voi l’autocertificazione in cui dichiarate che state lasciando il vostro domicilio momentaneamente per procurarvi beni di consumo essenziali.

Nelle solite 148 pagine si perde un po’, ma anche questo mese ho offerto un piccolo contributo, recensendo due gran bei libri.

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Riguardo al libro

È pronto già da un po’ ma al momento non può venire stampato. Come forse saprete quella che era nata per essere la più grande libreria del mondo, ossia Amazon, ha comunicato domenica scorsa (ma era un annuncio atteso da qualche giorno) che, stante l’emergenza coronavirus, non accetterà più ordini per prodotti non ritenuti di prima necessità. I libri come oggetto fisico non sono stati fatti rientrare fra i suddetti e dunque in questo momento su Amazon vendono solo eBook.

Avrei in realtà pronta anche la versione in formato elettronico, ma a farla uscire ora temo che brucerei il cartaceo, che è l’edizione alla quale tengo di gran lunga di più.

Se mi chiedete quando “Venerato Maestro Oppure” vedrà la luce la risposta è: “Non ne ho idea”. Quando Amazon riprenderà a spedire libri di carta e quindi chi lo sa? Forse fra due o tre settimane, più probabilmente non prima di un paio di mesi. E questo è quanto. Statemi bene, per quanto è possibile, che è la cosa più importante.

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Sweet Soul Makossa (r.i.p Manu Dibango, 12/12/1933-24/3/2020)

Quel che si dice non partire con il piede giusto: scritta nel 1972 per accompagnare, in una dimenticata Coppa dei Tropici, una nazionale di calcio del Camerun ben lungi dall’essere la spettacolare macchina che a Italia 90 umilierà i campioni in carica dell’Argentina, Soul Makossa pagava l’eliminazione subito subita dalla squadra venendo fatto a pezzi dai tifosi delusi. Leggenda narra che ben pochi esemplari della prima tiratura di quel singoletto si salvarono. Ma, smaltita la delusione, le radio riprendevano a passare il pezzo, che in breve diventava il più richiesto nei concerti dell’allora già trentottenne sassofonista. Di passaparola in passaparola, di paese in paese, di continente in continente, andava a finire che si vendevano un paio di milioni di copie del 45 giri e svariate centinaia di migliaia dell’album prontamente approntato per cavalcare l’onda. Un solo pezzo bastava a Manu Dibango per conquistare una popolarità ben più diffusa globalmente di quella di un Fela Kuti e a insidiarne il trono di re dell’afrofunk. Artisti (collaborarono anche) da non confondere tuttavia: Dibango veniva dal jazz e nei suoi dischi, certo meno di impatto di quelli del rivale ma in compenso più variegati, si è sempre sentito.

Non fa eccezione questo spettacolo che testimonia di una forma invidiabile per un’età ormai ai limiti del venerando. Spalleggiato da un gruppo eccelso, in “Uriage 2005: En Live” il nostro uomo dà fondo al suo bagaglio di trucchi aggirandosi gigione fra New Orleans, Giamaica e Africa, declinando indifferentemente funky dal pigro all’indiavolato e festoso reggae, soul e giustappunto jazz. È un’abbondante ora e mezza di godibilità estrema, rimpinguata da una ventina di minuti di “dietro le quinte” tratti da altri concerti. Indovinate a quale brano è riservato il gran finale…

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.276, febbraio 2007.

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Un appello a sostenere la piccola editoria indipendente (musicale, ma non solo)

Il già pericolante settore dell’editoria musicale, e più in generale tutte quelle piccole riviste più o meno specializzate anche in altri ambiti che tirano/vendono qualche migliaio di copie, rischia non di essere messo in ginocchio ma di essere spazzato via dall’emergenza coronavirus. Tenendo conto che non tutte le edicole sono rimaste aperte, ogni distributore ha chiesto a questi giornali una riduzione del 15-20% della tiratura, che si tradurrà in una perdita di venduto di almeno il 10%. Può sembrare poco, ma se aggiungete che molti inserzionisti (soprattutto i piccoli) ridurranno o cancelleranno gli spazi pubblicitari che acquistano di solito, o rimanderanno sine die (essi stessi in grossa crisi: pensate ad esempio alle agenzie di booking dei concerti) il pagamento delle fatture già emesse, può bastare a far chiudere chi vive da anni sul filo.

L’appello che faccio è dunque il seguente: specialmente ora e nei mesi che verranno continuate a comprare le vostre riviste preferite. Nell’edicola vicino a casa (che ha un disperato bisogno anch’essa del vostro sostegno), o abbonandovi. Vi dirò di più: tornate a dare una possibilità a chi magari leggevate un tempo e poi avete smesso di acquistare. Potreste scoprire (a me è successo) che è di nuovo meritevole della vostra attenzione, che è tornato un piacere leggerlo.

Sostenete l’editoria indipendente oggi per non doverla rimpiangere domani.

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Wire – Mind Hive (Pink Flag)

Non ci si crede. No, davvero. Per quanto gli Wire ci abbiano abituato bene in questa terza vita che ha segnato il secolo nuovo con la loro sequenza di album più lunga di sempre: con questo otto quando fra il ’77 e il ’79 ne pubblicarono tre e fra l’87 e il ’91 sei. Certo non si possono lamentare di una stampa che ha incensato ogni uscita, né di un pubblico che li segue con affetto e spesso fa registrare il “tutto esaurito” ai concerti. Miracoloso che non solo abbiano conservato la dirompente freschezza dei lontanissimi esordi ma che sul serio dopo “43 years of not looking back” (per dirla con il titolo, allora gli anni erano quaranta, che pubblicizzò uscita e tour del precedente “Silver/Lead”) il loro sguardo seguiti a essere lucido, attento al presente, ancora e persino volto al futuro. Colin Newman, Graham Lewis e Robert Grey (sessantacinque, sessantasei e sessantotto anni; l’altro fondatore, il settantatreenne Bruce Gilbert, da tempo non è più della compagnia ma ancora pubblica dischi, l’ultimo nel 2018) mai fanno revival di se stessi e dire che potrebbero permetterselo.

Non ci si crede. No, davvero. Che sul serio “Mind Hive” possa risultare, come da comunicato stampa, “the most masterful 35 minutes of post-punk you will hear this year” e invece probabilmente sarà così. Lo certificano subito la voce declamante su melodia arabeggiante e ritmica dallo squadrato allo sferzante di Be Like Them e fino alla conclusiva, molto più rilassata Mind Humming è un susseguirsi di “oh” e ah” di meraviglia. In particolare per l’ultravoxiana Cactused, per una Off The Beach spiazzantemente pop, per il variegato tour de force (7’54”) Hung. Soprattutto per Unrepentant: dimostrazione da manuale del perché gli Wire a un certo punto furono definiti “i Pink Floyd della new wave”.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.417, febbraio 2020.

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Pete Molinari – Just Like Achilles (We Are Hear)

Da emulo (eccelso) di Bob Dylan a cantautore con una vista a 360° sul rock ma finora solo quello dei ’60 (a meno che non si voglia considerare come prima eccezione alla regola, qui, una Steal The Night che potrebbe confondersi in un “Best Of” degli Oasis; non che i Gallagher non abbiano debiti rispetto a quel decennio, eh?): questo il percorso dall’inglese Pete Molinari dacché venne scoperto nel 2006 da Billy Childish, che ne eternava l’esordio “Walking Off The Map” nella cucina di casa sua con un Revox antidiluviano. Per il nostro uomo “Just Like Achilles” è il quinto album, vede la luce a sei anni dal precedente “Theosophy” ed è stato prodotto da Linda Perry e Bruce Witkin fra Lussemburgo, isola di Wight e California, stando a quanto si evince dalla pagina FB dell’artista in assenza di un comunicato stampa. Non l’unica cosa che manca all’appello per un lavoro la cui uscita è stata celebrata con una festa-concerto negli studi Capitol di Los Angeles che ha visto il nostro uomo fiancheggiato per l’occasione da gente del calibro di Don Was, Mike Garson, Jakob Dylan (ahem…), Ronnie Spector e Joey Waronker. Non c’è per ora una pubblicazione in CD e/o vinile per un’opera incisa evidentemente talmente bene che la registrazione risulta convincente persino in mp3. Ma sarebbe folle se non ci fosse, e presto.

È la migliore prova di Molinari da “A Virtual Landslide”, del 2008. La più variegata di sempre, con episodi folk e folk-rock (Goodbye Baby Jane, una Waiting For A Train quintessenza di Sua Bobbitudine, una Colour My Love da manuale Byrds, una Absolute Zero con tocchi spiritual) alternati ad altri che evocano Phil Spector (I’ll Take You There) come i Beach Boys (Please Mrs. Jones), Kinks e Stones (I Can’t Be Denied) come certa psichedelia (la traccia omonima).

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.417, febbraio 2020. A oggi “Just Like Achilles” è ancora reperibile soltanto in mp3.

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Audio Review n.418

È in edicola da alcuni giorni il numero 418 di “Audio Review”. Contiene mie recensioni degli album nuovi di Marc Almond, Bombay Bicycle Club, Bonny Light Horseman, Basia Bulat, Deacon Blue, Dining Rooms, Drive-By Truckers, Brigitte Fontaine, Heliocentrics, Maria McKee, Orb, Andy Shauf e Torres e di un cofanetto di Sam Cooke. Nella rubrica del vinile ho scritto in lungo di Neneh Cherry e più in breve dei Doobie Brothers.

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Last Of The Rock Stars – Elliott Murphy nel XXI secolo

Elliott Murphy oggi compie settantun anni. Ieri mi ha chiesto l’amicizia su Facebook e la cosa mi ha lasciato felicemente basito. Anche se per un paio di anni firmò una rubrica per quel “Velvet” di cui il sottoscritto fu fra i fondatori, non ho mai avuto il piacere di conoscerlo di persona. Gli porgo i miei auguri recuperando un po’ di recensioni dei tanti album che ha pubblicato nel primo ventennio del secolo nuovo: più o meno tutti degni di uno che esordì iscrivendosi con un capolavoro alla storia maggiore del cantautorato rock.

Strings Of The Storm (Wagram, 2003)

A trent’anni da “Aquashow”, indimenticabile esordio, su Polydor e accolto dalla critica con un entusiasmo che il tempo non ha spento (tant’è che lo si ritrova spesso negli elenchi di classici), Elliott Murphy pubblica il terzo album doppio, secondo in studio. Il primo una faccenda del 1992 chiamata “New York/Paris”, a certificare due legami, quello tuttora forte con la città natale, quello sviluppatosi negli ’80 con la capitale del paese che l’ha adottato (l’Italia terza nella lista degli affetti). Il secondo una storia di due anni fa e dal vivo: “Last Of The Rock Stars”. Nel 1973 era la canzone d’apertura di un debutto che appiccicava all’artefice la mortale etichetta di “nuovo Dylan”, nel 2001 un titolo che confermava insieme la guasconeria del Nostro e la sua capacità di ironizzare su un destino di bello e perdente. Si può non volergli bene? Osservandolo in una foto in cui pare Tom Waits, un rosso, elegante cappello a celare vezzosamente il poco rimasto di una bionda chioma che fu fluente e lo faceva così dandy. Ricordandone gli appassionati scritti su “Rolling Stone” nel periodo compreso fra il licenziamento da parte della Polydor e un ingaggio RCA su raccomandazione di Lou Reed, secondo di quattro contratti major e unico a fruttare più di un LP. L’ultima grande etichetta a dargli una possibilità sarà la WEA nel 1984 e ne risulterà “Party Girls/Broken Poets”, forse il suo ultimo disco grande sul serio. Poi tanti lavori un po’ così, molti su New Rose prima che fallisse e il resto per etichette minuscole, certamente dignitosi (in “Selling The Gold”, 1996, Bruce Springsteen ospite) ma senza nulla che li raccomandasse particolarmente, che li facesse preferire ai due gioielli citati e a uscite appena meno preziose come “Night Lights” del ’76 o “Murph The Surf”, dell’82. Non mi aspettavo nulla da “Strings Of The Storm”.

Tanto più sono rimasto allora impressionato da un album che, accorciato di un terzo (il secondo CD mostra cedimenti, ad esempio nella pletorica ripresa del Neil Young d’annata di Birds e in una Ground Zero piatta e banale, non redenta dalla genuinità del sentimento), sarebbe un capolavoro. Anche così com’è risulta tuttavia imperdibile per chiunque ami certo rock americano “d’autore”. Subito forte di un poker d’assi chiamati Green River (la Like A Hurricane di Elliott?), Night Falls (folk’n’roll fra luccicanza e malinconia), The Best Kiss e Big Sky (una più sbarazzina e irresistibilmente pop dell’altra). Ma forse non è un poker, è una scala reale completata da una The Poet And The Priest mediana fra Dylan e Leonard Cohen. Altre illuminazioni d’immenso: una Temple Bar che potrebbe venire da “Blonde On Blonde”; una The Banks Of The Ohio tex-mex (e tanti saluti alla geografia); una Everybody Get Lucky fra circo e musical; una Moan pachuca. Ridò un’occhiata alla copertina e mi colgo nella stessa posa. Tanto di cappello, signor Murphy.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.556, 25 novembre 2003.

Coming Home Again (Venus, 2007)

Buon vecchio Elliott… Apri il libretto di quello che dovrebbe essere il ventiduesimo capitolo del romanzo iniziato ventiquattro anni fa da “Aquashow” ed eccolo: al centro, biancovestito come sulla copertina di quello sfavillante debutto, il perfetto dandy di sempre, chioma bionda spiovente sulle spalle, un copricapo da cowboy calcato in testa a celare vezzosamente quello che tutti sanno, cioè che di capelli lì non ce n’è più da un pezzo. Sotto il cappello magari niente, se è di bulbi piliferi che si parla, ma il cervello è lucido, il cuore batte forte, la capacità di piazzare in ogni disco alcune canzoni da “nuovo Dylan” che fu resta inalterata. Pochi quasi-sessantenni in giro possono vantare una forma così smagliante. Da “Coming Home Again” toglierei giusto il talking di The Prince Of Chaos, troppo statico, monotono, tirato in lungo. Promosso il resto e persino pieni voti per la ballata di languida epicità Pneumonia Alley, per una Losing It da border, per una Mary Ann’s Garage Sale nella quale è “garage” la parola da sottolineare, per lo zydeco di Canaries In The Mind. Sfoglio ancora il libretto e noto un giovincello dall’aria familiare, boccoli e chitarra brandita spavaldamente. È il figlio Gaspard. Aspetto di scoprire se vale papà solo in posa: fiducioso.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.633, aprile 2007.

Notes From The Underground (Last Call, 2008)

Il più grande scandalo di una discografia che dopo l’avvento del CD ha ristampato il ristampabile e tanto avrebbe potuto risparmiarcelo? Che manchi all’appello da alcune ere geologiche quello che nel 1973 fu l’esordio di Elliott Murphy, in forza di quell’album straordinario subito acclamato come “il nuovo Bob Dylan” e, si sa, non è etichetta che porti bene. Sorta di “Blonde On Blonde” sintetizzato alla Lou Reed, messo fuori catalogo non appena l’autore passava nel ’75 dalla Polydor alla RCA e ripubblicato in digitale un’unica volta (tardi ’80: per il CD vi chiederanno cinquanta/sessanta euro, per un vinile il doppio) “Aquashow” è forse il più misconosciuto dei capolavori del cantautorato rock. Dopo diversi altri gloriosi insuccessi, a un certo punto questo quintessenziale newyorkese mai profeta negli USA, se non per i critici, e viceversa osannato in Europa si arrenderà a eleggere a patria la Francia e a residenza Parigi. Ma è una storia lunga, confido che in tanti lettori la conoscano (il rapporto di Elliott con questo giornale è stato, per un certo periodo, particolare e stretto) e vado subito a titillarli sparandola grossa: la sua prova migliore da “Party Girls/Broken Poets”, dell’84. Se non da “Murph The Surf”, dell’82. O addirittura da “Night Lights”, del ’76. Oso? Oso. Da “Aquashow” e ditemi voi se non è straordinario che un poeta del rock’n’roll ormai sulla soglia dei sessanta riesca a suonare fresco quanto il ventiquattrenne sfacciato che si autodefiniva, nella prima canzone del primo LP, “l’ultima delle rockstar”.

A proposito di attacchi memorabili: “Notes From The Underground” decolla sulle ali elettroacustiche di una And General Robert E. Lee di epicità indicibile e orecchiabilità somma e già l’acquisto sarebbe giustificato. Figurarsi dopo il raddoppio di estasi e leggerezza di Lost And Lonely, il valzer Ophelia, la ludica sarabanda (più rapping che talking) di What’s That, o una Crepuscule fedele al titolo, o una Razzmatazz che insegna una cosa o tre a Santana, o…

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.646, maggio 2008.

It Takes A Worried Man (Last Call, 2012)

Ormai diversi anni fa, recensendo per un altro giornale un altro disco di Murph The Surf, lamentavo come scandaloso che – dopo che si è ristampato quasi tutto quanto valeva la pena e tantissimo che sarebbe stato viceversa meglio non sottrarre all’oblio – ancora fosse fuori catalogo “Aquashow”, debutto favoloso del Nostro datato ’73, licenziato in origine dalla Polydor e riedito un’unica volta, nei tardi ’80, in digitale. Non è cambiato nulla da allora, se non che al mercato dei collezionisti chiedono cifre sempre più importanti non solo per i vinili d’epoca ma persino per il CD (nel giorno in cui scrivo Amazon ne ha in vendita uno a centoventi dollari) del più bell’apocrifo di sempre di Dylan (un novello Dylan oltretutto rivisitato come da un novello Lou Reed). Non è cambiato nulla anche nel senso che Elliott continua a pubblicare album eccellenti (siamo a ventisei in studio, se non ho sbagliato i conti) e tranne che in Francia dove è davvero “l’ultima delle rock star”, e un po’ qui da noi, non se ne accorge nessuno. Mi verrebbe da scrivere che “It Takes A Worried Man” è la sua prova migliore da uno a caso dei lavori classici (non meno di tre o quattro), ma mi accorgo di averlo già scritto un tot di volte dal 2000 in poi e mi astengo.

Mi limito a dire che è il solito bel disco di Elliott Murphy, forte del solito paio di gemme à la Dylan (Murphyland e Day For Night) e di quegli altri tre o quattro pezzi da aggiungere a un’ideale antologia che ormai dovrebbe essere tipo tripla. Io ci metterei di sicuro l’inusuale spiritual Worried Man Blues e una Eternal Highway dalle parti del Neil Young bucolico migliore.

 Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.179, aprile 2013.

Aquashow Deconstructed (Route 61, 2015)

Prima che Gesù morisse per i peccati di qualcuno ma non per quelli di Patti Smith, Marilyn Monroe si era sacrificata per tutti noi, anche se forse non lo sapevamo. Era il 1973, la Patti cominciava a immaginarsi nei panni della rockstar ma non avrebbe inciso il primo singolo che l’anno dopo, mentre nel primo brano del suo primo album già Elliott Murphy poteva autoproclamarsi, con la sfrontatezza che è della gioventù, una rockstar e nemmeno una qualunque, no: l’ultima. “Rock’n’roll is here to stay, but who will be left to play?”, si interrogava nel ritornello. Sono trascorsi quarantadue anni e il ventiquattrenne di allora – mai divenuto una stella in barba alle recensioni ditirambiche che ne salutarono l’apparizione alla ribalta – quel disco lo ha reinciso affidandone la produzione a un figlio che ha l’esatta età che aveva lui allora. Ed è come un chiudere un cerchio. La speranza, naturalmente, è che la pubblicazione di questo secondo “Aquashow” istighi infine una riedizione come si deve del primo, che incredibilmente non è mai stato ristampato in vinile e in CD un’unica volta, nel 1990, e non ci si crede che un lavoro siffatto, della statura dei classici, sia fuori catalogo da un quarto di secolo. Nonostante la stima dei colleghi e della stampa, nonostante la sua piccola popolarità europea e soprattutto francese, paese che lo ha da lungi adottato e dove risiede, ormai parigino DOC lui che rimane nondimeno un quintessenziale newyorkese, Murphy resta uno per pochi. È andata così ed è un po’ il destino di tutti o quasi (a Springteen, che per Murphy nutre un’enorme stima, non è andata malaccio) quelli fottuti dall’essere stati etichettati come dei nuovi Bob Dylan (che poi il nostro uomo era pressoché in pari misura pure un altro Lou Reed). Noi ce ne siamo fatti una ragione, lui probabilmente prima di noi.

A un tirare le somme dopo una serie di ascolti alternati a un modello che ho scoperto senza sorprendermi di conoscere a memoria, un’unica vera critica si può muovere all’“Aquashow” del 2015 e riguarda il titolo: “Deconstructed” fa pensare a una rielaborazione radicale di spartiti che per la più parte dei dieci titoli in scaletta così radicale non è. Si è asciugato, si è riarrangiato con mano lieve e piglio meno rock di quanto non fosse, tuttavia senza andare oltre. “Revisited” avrebbe presentato con maggiore fedeltà il progetto, ecco.

Depistante in tal senso che il brano inaugurale – il nostro uomo ci ha regalato altre canzoni bellissime ma mai più nessuna al pari memorabile di quella che sporse come biglietto da visita – sia quello che più si discosta dalla versione storica. Allora upbeat e guascona, oggi Last Of The Rock Stars è felpata e malinconica, un che di rabbrividente che si insinua sulle tracce di una tastiera fantasmatica, atmosfera che How’s The Family fa sconfinare nel luttuoso almeno fintanto che non deflagra drammatica sull’orlo del melò. Piacciono, ed è annotazione che vale per l’intero album, grazia e misura con la quale gli archi si prendono il proscenio. Piace la grana di una voce matura che ha guadagnato in espressività quello che inevitabilmente i decenni le hanno sottratto in freschezza. E comunque, beninteso, se si tratta di alzare i volumi e di roccare e rollare Elliott ancora c’è, come dimostrano l’esuberanza di Hangin’ Out, il declamare energico di Graveyard Scrapbook, il piglio di un White Middle Class Blues più che mai degno della Chicago più negra. Come uno scorcio di festa prima di una Like About Gatsby che ora come non mai riporta a casa il Lou Reed del coevo “Berlin” e della ballata, che ha acquisito la tenerezza che un ventiquattrenne non poteva regalarle e un sessantaseienne sì, Don’t Go Away. La guglia dell’“Aquashow” 2015 corrisponde a quello che era forse il momento più dimesso dell’“Aquashow” 1973: carillon desolato, Marilyn sanguina empatia laddove era esercizio retorico da poeta fresco di college. O così la percepisco io, commuovendomi.

Pubblicato per la prima volta su “Venerato Maestro Oppure” il 4 giugno 2015.

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Abbonamento speciale a “Blow Up” per supplire alla carenza di edicole aperte

Ricevo e doverosamente rilancio, da Stefano Isidoro Bianchi, editore e direttore di “Blow Up”.

Un saluto ai nostri lettori, amici, clienti, simpatizzanti… Sono Stefano I. Bianchi di Blow Up e vi scrivo per proporvi un abbonamento molto particolare, un abbonamento speciale valido solo per i tre mesi di Aprile, Maggio e Giugno 2020, pensato per venire incontro a chi normalmente non ama fare abbonamenti ma in questo periodo, a causa della quarantena a cui siamo tutti sottoposti per l’epidemia del coronavirus COVID-19, teme di avere difficoltà a trovare edicole aperte in cui acquistare il giornale o comunque non vuole rischiare, dato che con la chiusura forzata di agenzie e negozi ci saranno inevitabilmente dei disagi, mentre le Poste invece continueranno a funzionare.

Abbonandovi a questo abbonamento breve riceverete i tre numeri del giornale + il Director’s Cut di aprile, che come sempre è allegato al numero del mese, dopodiché l’augurio è che tutto torni come prima e che nessuno abbia più necessità di abbonamenti speciali come questo.

Però fate attenzione: chi si abbona adesso, vale a dire entro il 20 marzo 2020, riceverà il numero di aprile e quelli seguenti con la spedizione normale per gli abbonati che avviene tramite il servizio postale Premium Press, che garantisce l’arrivo in due-tre giorni, ed è comunque ‘coperto’ dalla nostra assistenza per qualunque disagio.
Altrimenti, chi vede in ritardo questo annuncio e si abbona DOPO il 20 marzo 2020 sappia che riceverà comunque solo ed esclusivamente i tre numeri di aprile, maggio e giugno 2020 perché questo abbonamento speciale è valido solo per questi tre mesi e non per altri. Ciò significa che se vi abbonate il 10 aprile vi spediamo subito il numero di aprile come piego di libri (che è molto più lento del Premium Press) e poi i due seguenti con Premium Press.

Questo il link che vi porta direttamente alla pagina dell’abbonamento:
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Un saluto a tutti… e che passi alla svelta questo caos…

Stefano I. Bianchi

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It was 50 years ago today – Il trionfale congedo di Simon & Garfunkel

Paul Simon e Art Garfunkel attraversano i ’60 con grazia impareggiabile, con l’entusiasmo della giovinezza sfumante senza cesure nella saggezza della maturità, offrendo un ritratto dei tempi assai meno agiografico di quanto la memoria non suggerisca. Con un nocciolo di amarezza al centro della polpa di canzoni straordinariamente amabili: a scorrere i versi di The Sound Of Silence (il brano che nel 1965 li promuoveva allo stardom grazie a una felice intuizione del produttore Tom Wilson, che vi aggiungeva a posteriori chitarre elettriche, basso e batteria) ci si chiede chi altri abbia detto tanto con così poche parole sul tema dell’incomunicabilità. Ed è mai stata rappresentata l’innocenza di quegli anni meglio che nel bozzetto di amore in viaggio di America? Un film e un’epoca in tre minuti e trentasei secondi. Ma a fine decennio la coppia arriva scoppiata.

Non lo immagina probabilmente nessuno, fra i milioni che acquistano “Bridge Over Troubled Water” spedendolo al primo posto in classifica un po’ ovunque, che quella che era stata una bellissima storia di amicizia, prima e oltre che un felice sebbene squilibrato sodalizio artistico, sia all’epilogo e sembrerà un suicidio commerciale da rivaleggiare con quello – lo stesso anno! –  dei Beatles l’annuncio dello scioglimento. Tanto di più si sentiranno allora traditi i fan riguardando quella foto sul retro copertina, con Paul che appoggia la testa sulla schiena di Art con gesto di tenerezza infantile. Ma che congedo che fu! Il 33 giri più memorabile fra i cinque del duo, un’unica piccola caduta con il folk andino alquanto kitsch di El condor pasa e per il resto un susseguirsi di gemme, si tratti di uno squassante errebì bianco come Keep The Customer Satisfied o dello scanzonato beat Why Don’t You Write Me, dell’elegiaca So Long, Frank Lloyd Wright o della ninna nanna Song For The Asking, o ancora del rock’n’roll Bye Bye Love, che in un tripudio di applausi salda il debito con gli Everly Brothers. Le più abbaglianti in apertura di facciate: il più bello spiritual laico di sempre (Aretha lo capì subito e lo fece suo), che è la canzone che intitola l’album, e l’epitome somma di folk-rock The Boxer.

Tratto da Rock: 1000 dischi fondamentali più cento dischi di culto, Giunti, 2019. Cinquant’anni fa a oggi “Bridge Over Troubled Water” sostituiva “Led Zeppelin II” al primo posto della classifica di “Billboard” degli album più venduti negli Stati Uniti. Ci resterà per dieci settimane consecutive.

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