
Elliott Murphy oggi compie settantun anni. Ieri mi ha chiesto l’amicizia su Facebook e la cosa mi ha lasciato felicemente basito. Anche se per un paio di anni firmò una rubrica per quel “Velvet” di cui il sottoscritto fu fra i fondatori, non ho mai avuto il piacere di conoscerlo di persona. Gli porgo i miei auguri recuperando un po’ di recensioni dei tanti album che ha pubblicato nel primo ventennio del secolo nuovo: più o meno tutti degni di uno che esordì iscrivendosi con un capolavoro alla storia maggiore del cantautorato rock.

Strings Of The Storm (Wagram, 2003)
A trent’anni da “Aquashow”, indimenticabile esordio, su Polydor e accolto dalla critica con un entusiasmo che il tempo non ha spento (tant’è che lo si ritrova spesso negli elenchi di classici), Elliott Murphy pubblica il terzo album doppio, secondo in studio. Il primo una faccenda del 1992 chiamata “New York/Paris”, a certificare due legami, quello tuttora forte con la città natale, quello sviluppatosi negli ’80 con la capitale del paese che l’ha adottato (l’Italia terza nella lista degli affetti). Il secondo una storia di due anni fa e dal vivo: “Last Of The Rock Stars”. Nel 1973 era la canzone d’apertura di un debutto che appiccicava all’artefice la mortale etichetta di “nuovo Dylan”, nel 2001 un titolo che confermava insieme la guasconeria del Nostro e la sua capacità di ironizzare su un destino di bello e perdente. Si può non volergli bene? Osservandolo in una foto in cui pare Tom Waits, un rosso, elegante cappello a celare vezzosamente il poco rimasto di una bionda chioma che fu fluente e lo faceva così dandy. Ricordandone gli appassionati scritti su “Rolling Stone” nel periodo compreso fra il licenziamento da parte della Polydor e un ingaggio RCA su raccomandazione di Lou Reed, secondo di quattro contratti major e unico a fruttare più di un LP. L’ultima grande etichetta a dargli una possibilità sarà la WEA nel 1984 e ne risulterà “Party Girls/Broken Poets”, forse il suo ultimo disco grande sul serio. Poi tanti lavori un po’ così, molti su New Rose prima che fallisse e il resto per etichette minuscole, certamente dignitosi (in “Selling The Gold”, 1996, Bruce Springsteen ospite) ma senza nulla che li raccomandasse particolarmente, che li facesse preferire ai due gioielli citati e a uscite appena meno preziose come “Night Lights” del ’76 o “Murph The Surf”, dell’82. Non mi aspettavo nulla da “Strings Of The Storm”.
Tanto più sono rimasto allora impressionato da un album che, accorciato di un terzo (il secondo CD mostra cedimenti, ad esempio nella pletorica ripresa del Neil Young d’annata di Birds e in una Ground Zero piatta e banale, non redenta dalla genuinità del sentimento), sarebbe un capolavoro. Anche così com’è risulta tuttavia imperdibile per chiunque ami certo rock americano “d’autore”. Subito forte di un poker d’assi chiamati Green River (la Like A Hurricane di Elliott?), Night Falls (folk’n’roll fra luccicanza e malinconia), The Best Kiss e Big Sky (una più sbarazzina e irresistibilmente pop dell’altra). Ma forse non è un poker, è una scala reale completata da una The Poet And The Priest mediana fra Dylan e Leonard Cohen. Altre illuminazioni d’immenso: una Temple Bar che potrebbe venire da “Blonde On Blonde”; una The Banks Of The Ohio tex-mex (e tanti saluti alla geografia); una Everybody Get Lucky fra circo e musical; una Moan pachuca. Ridò un’occhiata alla copertina e mi colgo nella stessa posa. Tanto di cappello, signor Murphy.
Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.556, 25 novembre 2003.

Coming Home Again (Venus, 2007)
Buon vecchio Elliott… Apri il libretto di quello che dovrebbe essere il ventiduesimo capitolo del romanzo iniziato ventiquattro anni fa da “Aquashow” ed eccolo: al centro, biancovestito come sulla copertina di quello sfavillante debutto, il perfetto dandy di sempre, chioma bionda spiovente sulle spalle, un copricapo da cowboy calcato in testa a celare vezzosamente quello che tutti sanno, cioè che di capelli lì non ce n’è più da un pezzo. Sotto il cappello magari niente, se è di bulbi piliferi che si parla, ma il cervello è lucido, il cuore batte forte, la capacità di piazzare in ogni disco alcune canzoni da “nuovo Dylan” che fu resta inalterata. Pochi quasi-sessantenni in giro possono vantare una forma così smagliante. Da “Coming Home Again” toglierei giusto il talking di The Prince Of Chaos, troppo statico, monotono, tirato in lungo. Promosso il resto e persino pieni voti per la ballata di languida epicità Pneumonia Alley, per una Losing It da border, per una Mary Ann’s Garage Sale nella quale è “garage” la parola da sottolineare, per lo zydeco di Canaries In The Mind. Sfoglio ancora il libretto e noto un giovincello dall’aria familiare, boccoli e chitarra brandita spavaldamente. È il figlio Gaspard. Aspetto di scoprire se vale papà solo in posa: fiducioso.
Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.633, aprile 2007.

Notes From The Underground (Last Call, 2008)
Il più grande scandalo di una discografia che dopo l’avvento del CD ha ristampato il ristampabile e tanto avrebbe potuto risparmiarcelo? Che manchi all’appello da alcune ere geologiche quello che nel 1973 fu l’esordio di Elliott Murphy, in forza di quell’album straordinario subito acclamato come “il nuovo Bob Dylan” e, si sa, non è etichetta che porti bene. Sorta di “Blonde On Blonde” sintetizzato alla Lou Reed, messo fuori catalogo non appena l’autore passava nel ’75 dalla Polydor alla RCA e ripubblicato in digitale un’unica volta (tardi ’80: per il CD vi chiederanno cinquanta/sessanta euro, per un vinile il doppio) “Aquashow” è forse il più misconosciuto dei capolavori del cantautorato rock. Dopo diversi altri gloriosi insuccessi, a un certo punto questo quintessenziale newyorkese mai profeta negli USA, se non per i critici, e viceversa osannato in Europa si arrenderà a eleggere a patria la Francia e a residenza Parigi. Ma è una storia lunga, confido che in tanti lettori la conoscano (il rapporto di Elliott con questo giornale è stato, per un certo periodo, particolare e stretto) e vado subito a titillarli sparandola grossa: la sua prova migliore da “Party Girls/Broken Poets”, dell’84. Se non da “Murph The Surf”, dell’82. O addirittura da “Night Lights”, del ’76. Oso? Oso. Da “Aquashow” e ditemi voi se non è straordinario che un poeta del rock’n’roll ormai sulla soglia dei sessanta riesca a suonare fresco quanto il ventiquattrenne sfacciato che si autodefiniva, nella prima canzone del primo LP, “l’ultima delle rockstar”.
A proposito di attacchi memorabili: “Notes From The Underground” decolla sulle ali elettroacustiche di una And General Robert E. Lee di epicità indicibile e orecchiabilità somma e già l’acquisto sarebbe giustificato. Figurarsi dopo il raddoppio di estasi e leggerezza di Lost And Lonely, il valzer Ophelia, la ludica sarabanda (più rapping che talking) di What’s That, o una Crepuscule fedele al titolo, o una Razzmatazz che insegna una cosa o tre a Santana, o…
Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.646, maggio 2008.

It Takes A Worried Man (Last Call, 2012)
Ormai diversi anni fa, recensendo per un altro giornale un altro disco di Murph The Surf, lamentavo come scandaloso che – dopo che si è ristampato quasi tutto quanto valeva la pena e tantissimo che sarebbe stato viceversa meglio non sottrarre all’oblio – ancora fosse fuori catalogo “Aquashow”, debutto favoloso del Nostro datato ’73, licenziato in origine dalla Polydor e riedito un’unica volta, nei tardi ’80, in digitale. Non è cambiato nulla da allora, se non che al mercato dei collezionisti chiedono cifre sempre più importanti non solo per i vinili d’epoca ma persino per il CD (nel giorno in cui scrivo Amazon ne ha in vendita uno a centoventi dollari) del più bell’apocrifo di sempre di Dylan (un novello Dylan oltretutto rivisitato come da un novello Lou Reed). Non è cambiato nulla anche nel senso che Elliott continua a pubblicare album eccellenti (siamo a ventisei in studio, se non ho sbagliato i conti) e tranne che in Francia dove è davvero “l’ultima delle rock star”, e un po’ qui da noi, non se ne accorge nessuno. Mi verrebbe da scrivere che “It Takes A Worried Man” è la sua prova migliore da uno a caso dei lavori classici (non meno di tre o quattro), ma mi accorgo di averlo già scritto un tot di volte dal 2000 in poi e mi astengo.
Mi limito a dire che è il solito bel disco di Elliott Murphy, forte del solito paio di gemme à la Dylan (Murphyland e Day For Night) e di quegli altri tre o quattro pezzi da aggiungere a un’ideale antologia che ormai dovrebbe essere tipo tripla. Io ci metterei di sicuro l’inusuale spiritual Worried Man Blues e una Eternal Highway dalle parti del Neil Young bucolico migliore.
Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.179, aprile 2013.

Aquashow Deconstructed (Route 61, 2015)
Prima che Gesù morisse per i peccati di qualcuno ma non per quelli di Patti Smith, Marilyn Monroe si era sacrificata per tutti noi, anche se forse non lo sapevamo. Era il 1973, la Patti cominciava a immaginarsi nei panni della rockstar ma non avrebbe inciso il primo singolo che l’anno dopo, mentre nel primo brano del suo primo album già Elliott Murphy poteva autoproclamarsi, con la sfrontatezza che è della gioventù, una rockstar e nemmeno una qualunque, no: l’ultima. “Rock’n’roll is here to stay, but who will be left to play?”, si interrogava nel ritornello. Sono trascorsi quarantadue anni e il ventiquattrenne di allora – mai divenuto una stella in barba alle recensioni ditirambiche che ne salutarono l’apparizione alla ribalta – quel disco lo ha reinciso affidandone la produzione a un figlio che ha l’esatta età che aveva lui allora. Ed è come un chiudere un cerchio. La speranza, naturalmente, è che la pubblicazione di questo secondo “Aquashow” istighi infine una riedizione come si deve del primo, che incredibilmente non è mai stato ristampato in vinile e in CD un’unica volta, nel 1990, e non ci si crede che un lavoro siffatto, della statura dei classici, sia fuori catalogo da un quarto di secolo. Nonostante la stima dei colleghi e della stampa, nonostante la sua piccola popolarità europea e soprattutto francese, paese che lo ha da lungi adottato e dove risiede, ormai parigino DOC lui che rimane nondimeno un quintessenziale newyorkese, Murphy resta uno per pochi. È andata così ed è un po’ il destino di tutti o quasi (a Springteen, che per Murphy nutre un’enorme stima, non è andata malaccio) quelli fottuti dall’essere stati etichettati come dei nuovi Bob Dylan (che poi il nostro uomo era pressoché in pari misura pure un altro Lou Reed). Noi ce ne siamo fatti una ragione, lui probabilmente prima di noi.
A un tirare le somme dopo una serie di ascolti alternati a un modello che ho scoperto senza sorprendermi di conoscere a memoria, un’unica vera critica si può muovere all’“Aquashow” del 2015 e riguarda il titolo: “Deconstructed” fa pensare a una rielaborazione radicale di spartiti che per la più parte dei dieci titoli in scaletta così radicale non è. Si è asciugato, si è riarrangiato con mano lieve e piglio meno rock di quanto non fosse, tuttavia senza andare oltre. “Revisited” avrebbe presentato con maggiore fedeltà il progetto, ecco.
Depistante in tal senso che il brano inaugurale – il nostro uomo ci ha regalato altre canzoni bellissime ma mai più nessuna al pari memorabile di quella che sporse come biglietto da visita – sia quello che più si discosta dalla versione storica. Allora upbeat e guascona, oggi Last Of The Rock Stars è felpata e malinconica, un che di rabbrividente che si insinua sulle tracce di una tastiera fantasmatica, atmosfera che How’s The Family fa sconfinare nel luttuoso almeno fintanto che non deflagra drammatica sull’orlo del melò. Piacciono, ed è annotazione che vale per l’intero album, grazia e misura con la quale gli archi si prendono il proscenio. Piace la grana di una voce matura che ha guadagnato in espressività quello che inevitabilmente i decenni le hanno sottratto in freschezza. E comunque, beninteso, se si tratta di alzare i volumi e di roccare e rollare Elliott ancora c’è, come dimostrano l’esuberanza di Hangin’ Out, il declamare energico di Graveyard Scrapbook, il piglio di un White Middle Class Blues più che mai degno della Chicago più negra. Come uno scorcio di festa prima di una Like About Gatsby che ora come non mai riporta a casa il Lou Reed del coevo “Berlin” e della ballata, che ha acquisito la tenerezza che un ventiquattrenne non poteva regalarle e un sessantaseienne sì, Don’t Go Away. La guglia dell’“Aquashow” 2015 corrisponde a quello che era forse il momento più dimesso dell’“Aquashow” 1973: carillon desolato, Marilyn sanguina empatia laddove era esercizio retorico da poeta fresco di college. O così la percepisco io, commuovendomi.
Pubblicato per la prima volta su “Venerato Maestro Oppure” il 4 giugno 2015.
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