Nato in Scozia da genitori irlandesi, cresciuto in Canada per poi trasferirsi – ancora bambino – nel Maryland e da ormai trentacinque anni newyorkese di adozione benché tuttora abbia passaporto britannico: un po’ ce l’aveva nel destino David Byrne di essere cittadino del mondo, mentre doveva essere iscritta nel DNA la curiosità per musiche non appiattite sul gusto corrente. Tant’è che, liceale appena dopo il giro di boa dei ’60, non dava vita al complessino garage canonico per il tempo, con l’usuale catalogo di cover di blues elettrico o della British Invasion, bensì a un duo con in repertorio Frank Sinatra così come Rodgers & Hart o cose disneyane, decenni prima che ci pensasse Hal Willner. E per certo in quel movimento pure parecchio variegato che fu la new wave i suoi Talking Heads furono fra i più propensi a infiltrare nel rock musiche “altre”: il soul e il funk già nel secondo LP, “More Songs About Buildings And Food” (1978), e quindi assortite suggestioni di Africa e Asia nei monumentali “Fear Of Music” e “Remain In Light” (’79 e ’80). E che dire di “My Life In The Bush Of Ghosts”? Disco dell’81 (ma le registrazioni avevano in realtà preceduto quelle di “Remain In Light”) realizzato dal Nostro congiuntamente con Brian Eno e a tal punto in anticipo sui tempi da parere all’epoca un oggetto alieno: fenomenale intreccio di ritmi tenuti assieme da melodie etniche provenienti da ogni dove nonché ponte, con le sue manipolazioni di nastri, fra Cage e Stockhausen da un lato e l’hip hop allora in divenire dall’altro.
Quando nel 1989 Byrne mette mano a “Rei Momo” i Talking Heads di fatto non esistono più, benché a saperlo sia forse solo lui, ignari i sodali che l’anno prima gli hanno dato man forte in “Naked”, ottimo congedo pregno nuovamente d’Africa dopo che “Little Creatures” e “True Stories” erano sembrati disegnare per il gruppo orizzonti relativamente convenzionali in uno scenario di pop-rock a stelle e strisce. Non fa per il nostro uomo, avrete inteso, riposare sugli allori. In proprio ha già pubblicato, oltre a “My Life In The Bush Of Ghosts” e dopo una raccolta di musiche sempre datata ’81 per un balletto di Twila Tharp (“The Catherine Wheel”), tre colonne sonore: una per il teatro (“Music For ‘The Knee Plays’”, 1985) e quindi due per il cinema (“Sounds From True Stories” nell’86 e l’anno dopo “The Last Emperor”, in collaborazione con Ryuichi Sakamoto e Cong Su). Ma vista la natura di progetti su commissione degli album summenzionati è quasi come fosse un esordio, “Rei Momo”, e a debuttare sono anzi contemporaneamente il David Byrne solista e l’etichetta, la Luaka Bop, che ha appena fondato con il benestare di Sire e Warner. Il disegno si farà più chiaro quando il marchio comincerà a griffare storiche antologie di musica latina (le collane “Brazil Classics” e “Cuban Classics”) per poi allargare lo sguardo al mondo intero (ed ecco gli “Asia Classics”) e infine offrire un tetto discografico a Susana Baca come a Jim White, a Tom Zé come alle Zap Mama e ristampare Shuggie Otis e gli Os Mutantes. Fosse uscito in mezzo a tutto ciò, l’album sarebbe stato probabilmente meno equivocato, l’accoglienza più benevola. Con il senno del poi…
Con il senno del poi “Rei Momo” (che in Brasile è il re del Carnevale) non sembra affatto – o lo pare assai meno – l’esercitazione stilistica che molti bollarono come intellettualoide, frigida, magari anche (fatta salva la buona fede dell’artefice) di impronta colonialista nel suo espropriare tradizioni altrui rispetto a quella dell’autore. È una collezione di canzoni in cui l’ex-Talking Heads si misura (specificandolo fra parentesi dopo il titolo di ogni brano!) con cumbia e merengue, cha cha cha e samba, charanga e bolero, saltabeccando fra Caraibi, Brasile e Africa. Non sempre la proverbiale ciambella riesce col buco e nondimeno la scrittura è mediamente fresca, il divertimento dei musicisti coinvolti – qualcuno anche in fase compositiva: Johnny Pacheco cofirma tre canzoni, Willie Colón e Arto Lindsay una a testa – lampante. È un raro caso di disco che più passano gli anni e meno rughe mostra.
Pubblicato per la prima volta su “Mondomix”, n.9, autunno 2010.
Come mai non citi “The Catherine Wheel”?
Ops! Un’inspiegabile dimenticanza nella quale incorsi quando scrissi il pezzo e di cui, ripubblicandolo, non mi sono accorto. Adesso ho rimediato. Ti ringrazio per la segnalazione.