Uno dei dischi più urticanti che ascolterete (io ve lo consiglio) nel 2020 è stato appena pubblicato da una cantante che a giugno compirà ottantun anni e nondimeno è ancora – sublimemente – “folle”, come dichiarava nel 1968 nel titolo del suo secondo album. “Terre neuve” è il diciannovesimo e se era dal 2013 che lo si attendeva è perché ultimamente la salute non ha granché assistito un’artista che dire eclettica è poco – è anche attrice, autrice radiofonica e teatrale, poetessa e romanziera. Il che non le ha impedito nel frattempo di dare alle stampe cinque assortiti volumi ed essere protagonista di un documentario che ne narra l’incredibile vita. Avendo accennato a che altro ha fatto, musica a parte, mi limito qui a riassumere ulteriormente dicendo che in musica è una che ha mischiato di tutto, dandosi alternativamente o contemporaneamente al pop come al rock più spigoloso, da un jazz nell’ampio arco fra il cantabile e il free a esperimenti con la world, dal folk all’elettronica, dalla spoken poetry alla classica contemporanea. Fenomeno tutto transalpino fintanto che nel 2001 dei ferventi ammiratori, certi Sonic Youth, non le facevano passare i confini collaborando al formidabile (fra gli ospiti pure tal Archie Shepp) “Kékéland”.
Disco easy se raffrontato a questo, che dopo i due minuti di faticoso recitativo su organo liturgico di Le tout pour le tout letteralmente deflagra con una Les beaux animaux dalle parti dei Velvet Underground di Sister Ray e una J’irai pas furiosamente Suicide. Titolo successivo: Je vous déteste. Più avanti, brani sul limitare dell’industrial, una Vendetta risolutamente da Gioventù Sonica, della psichedelia psicotica e solo a fondo corsa, in Parlons d’autre chose, un che di elegiaco, della crepuscolare dolcezza. Non. Ci. Si. Crede.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.418, marzo 2020.