Chissà a che libro sta lavorando Julian Cope per inaugurare il nuovo decennio dopo averne dato alle stampe nello scorso quattro uno più monumentale e acclamato dell’altro: The Megalithic European (il suo secondo volume da studioso di siti preistorici), Japrocksampler (un’indagine approfonditissima sul rock giapponese degli anni ’70), Copendium (ode ai suoi album “di culto”: qualche centinaio) e One Three One (infine un romanzo: ambientato in Sardegna!). Che nel frattempo abbia continuato a pubblicare dischi (da solista o a nome Dope) e in numero spropositato (una quindicina) sembra importare a pochi pure fra gli estimatori di lunghissima data e giustamente, trattandosi perlopiù di collezioni sgangherate nel solco della sconcertante accoppiata – “Skellington” più “Droolian” – con cui il Druido sabotava a fine ’80 una carriera post-Teardrop Explodes artisticamente notevole e premiata da buoni riscontri commerciali. Salvo poi tornare sui suoi passi e calare nella prima metà dei ’90 un poker d’assi – “Peggy Suicide”, “Jehovahkill”, “Autogeddon” e “20 Mothers” – nei quali è declinato al meglio un rock post-psichedelico peculiare nel suo assemblare le più disparate influenze e prodigo di bei guizzi pop. Fase che si concludeva nel ’96 con il deludente “Interpreter”, ultimo suo lavoro per una major. Quanto gli è andato dietro, tutto griffato con il marchio personale Head Heritage, è in massima parte faccenda per cultori terminali.
Non così “Self Civil War”, la sua cosa migliore da un quarto di secolo in qua. Fantasmagorico nel suo coniugare krautrock e Black Sabbath, Stooges, Doors, Velvet Underground, folk fiabesco e cavalcate guerresche. A un certo punto salta fuori una Billy che meglio sviluppata in epoca Mercury/Island sarebbe stata un singolo perfetto.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.419, aprile 2020.