Perturbazione – (dis)amore (Ala Bianca)

Colti come sono negli ascolti come nelle letture, impossibile che nel lungo percorso che li ha portati a dare un seguito affatto diverso a “Le storie che ci raccontiamo” ai Perturbazione non sia venuto in mente che stavano concependo le loro “23 Love Songs”, che fa un terzo esatto delle “69 Love Songs” con le quali i Magnetic Fields salutavano il Novecento consegnandone agli annali il più mastodontico dei capolavori di un pop a sua volta coltissimo. Al tempo gli allora ragazzi di Rivoli avevano in curriculum giusto un album e un EP, ma già si capiva che di strada ne avrebbero fatta. Quanta, nessuno poteva immaginarlo. Due abbondanti decenni dopo per curiosa coincidenza, dovuta a una cosa da nulla come una pandemia che ne ha fatto slittare per due volte l’uscita, l’ottavo lavoro in studio di Tommaso Cerasuolo e dei fratelli Cristiano e Rossano Lo Mele (i fondatori superstiti; Alex Baracco è con loro dal 2008) è stato pubblicato lo stesso giorno in cui Stephin Merritt e soci hanno aggiunto al catalogo “Quickies”. Difficile immaginare due dischi… ahem… concettualmente tanto distanti, anche per esiti, e tuttavia li accomuna il gusto della sfida a un mondo in cui i servizi di streaming hanno insieme fatto tornare indietro di sessant’anni, a un’epoca pre-album, la popular music e ridotto a una manciata di secondi il tempo che l’ascoltatore medio concede a un brano per farsene catturare prima di passare ad altro. Le sveltine dei Magnetic Fields sono ventotto, compresse in tre quarti d’ora, qualcuna di una manciata di secondi appunto, ma figurarsi se possono avere una chance nell’era di Ed Sheeran e della trap, per dire di due opposti. Si apprezza lo spirito dell’operazione, si deplora che le tante buone idee non siano state sviluppate adeguatamente. “(dis)amore” di tracce ne conta cinque in meno ma gira (su vinile è doppio) sui settanta minuti. Da ascoltare se possibile in un’unica seduta o se no, fruendone a puntate, seguendo comunque la scaletta. Mischiereste mai i capitoli di un romanzo? Dicono gli autori che certi amici avevano suggerito loro di dare una sforbiciata, ché già il disco musicalmente osa quanto basta rinunciando alle lusinghe ritmiche dei due più immediati predecessori e, insomma, riportando indietro le lancette a prima della fatidica partecipazione (2014) al festival di Sanremo. A quando quiet was the new loud e i Perturbazione erano i portabandiera di una via italiana a un indie da camera e cameretta. Il benintenzionato consiglio è stato per fortuna disatteso.

Incontrarsi, innamorarsi, amarsi e poi disamorarsi senza nemmeno una ragione precisa, perché la vita è fatta così e troppo spesso dopo l’emozione che ti scoppia dentro cominciano i silenzi della sera, come cantava Califano. Quante ce ne sono di citazioni citabili in queste ventitré istantanee in cui spesso non sai chi sia a raccontare, se lui o lei. Nelle stanze di vita quotidiana dei Perturbazione dialoghi, riflessioni, osservazioni spicciole si fanno illuminazioni e poesia, da “ti abbraccerà senza pensarci su, la bacerai davanti alla TV” (La nuda proprietà) a “ma il desiderio è come fumo, se provi a stringere sfugge di mano” (Le sigarette dopo il sesso), da un silenzio che “da un po’ di tempo sembra il suono del rancore” (Silenzio) a “la nostra felicità come aria limpida, noi ci accorgiamo soltanto se latita” (L’inesorabile), da “il tuo amore mi divora un pezzo al giorno… mi consuma a fuoco lento, dalle ceneri rinasce quando sembra spento” (Lasciarsi a metà) a “lacrime dentro un cestino è tutto ciò che resta del nostro destino” (Dieci fazzolettini). E poi e naturalmente ci sono gli spartiti, che pur nel “contesto volutamente sottoprodotto” di cui parla il comunicato stampa (ma non si pensi a un suono lo-fi: l’album è zeppo di piccole e grandi raffinatezze) rifulgono e si collocano a un livello altissimo pure in una discografia di rara consistenza. Strategicamente i brani più brevi (ve n’è sotto i due minuti) si collocano spesso fra altri dallo sviluppo più congruo (“compiuto” sarebbe improprio, sono tutti compiuti), sapientemente vi è un alternarsi di passo e atmosfere, quest’ultime talvolta depistanti rispetto a quanto si narra ed ecco che al giocoso folk-rock di Il ragù viene affidato il racconto della morte inattesa, e senza un perché apparente, di una vicina, agli Smiths di Taxi taxi la storia di un incontro casuale, possibile diversione possibilmente solo immaginata da un rapporto di coppia se no esclusivo, all’esilarante folk-funk Dieci fazzolettini la constatazione che it’s all over now, baby blue. Unitarietà e varietà convivono in un lavoro in cui i Perturbazione riversano passioni di sempre che sono non solo la banda Morrissey/Marr appena chiamata in causa o i soliti R.E.M. (Mostrami una donna la loro Shiny Happy People?) ma anche la più varia Italia d’antan: dal Luigi Tenco che fa capolino in Silenzio al Banco del Mutuo Soccorso evocato in L’inesorabile, alle suggestioni cinematografiche che promanano dalla di fatto strumentale Come i ladri, dalla sontuosa orchestrazione che sequestra il finale di Io mi domando se eravamo noi, dalla liturgia per ciò che è stato e non tornerà del suggello Le assenze. Che il Rock latiti ci si accorge quando quasi a metà corsa divampa la fosca Non farlo. Che dopo tutti questi anni il gruppo ancora non abbia imparato a individuare quello che è con ogni evidenza “il” brano trainante è evidenziato dalla scelta come “singoli” in video di Le spalle nell’abbraccio e Io mi domando se eravamo noi, quando il pezzo cla-mo-ro-so che in un altro paese ogni radio avrebbe in playlist è Le regole dell’attrazione.

Il covid-19 ci si è messo di mezzo pure facendo cancellare i primi concerti che avrebbero dovuto promuovere “(dis)amore” e che chissà quando verranno riprogrammati. L’auspicio, quando sarà, è che i Perturbazione abbiano nel frattempo cambiato idea e non si limitino ad eseguirne una selezione di pezzi mischiata al repertorio storico. Dovrebbero suonarlo tutto e tutto di seguito “(dis)amore”, che è forse il loro capolavoro, e quindi un po’ di vecchi classici. Non mi daranno retta.

4 commenti

Archiviato in recensioni

4 risposte a “Perturbazione – (dis)amore (Ala Bianca)

  1. Dylaniato

    Venerato Maestro, il commento è un po’ fuori fuoco – ma cosa ne pensa del nuovo Dylan? Piaciuto?

    • Non mi permetto di esprimere un giudizio su un album di chiunque dopo averlo ascoltato una sola volta e figurarsi dunque se azzardo verbo su uno di Bob Dylan (a parte annotare che di raccolte di cover non ne potevo davvero più). Sfortunatamente, passeranno almeno dieci giorni ancora prima che possa fargli fare un secondo giro, visto che nel frattempo devo familiarizzare con la solita quantità monstre di roba da recensire, di cui Dylan non fa parte.

      • Rusty

        È un po’ il cruccio del recensore, credo. Ci sono “dischi” per i quali ci sono voluti mesi, se non anni, per rendermi conto di quanto fossero belli. Altri che, viceversa, dopo un innamoramento tipo colpo di fulmine nel lungo periodo ho ridimensionato, talvolta drasticamente. E lo dico da semplice fruitore. Per un giornalista è una bella responsabilità.

  2. Grazie del consiglio. Ho comprato il disco fidandomi della recensione e lo sto apprezzando davvero tanto. Sui singoli, concordo sul fatto che ci sono nel disco almeno sei o sette pezzi migliori di Le spalle nell’abbraccio (su tutte Le regole dell’attrazione ma anche Chi conosci davvero – il cui ritornello è, usando un anglicismo che aborro ma che calza bene, estremamente “catchy”, Mostrami una donna, Lasciarsi a metà, Conta su di me le prime che mi vengono in mente). Però un pezzo come Mi domando se eravamo noi per me è una canzone strepitosa, anche nella sua inmediatezza. Sarà la mia passionaccia per l’Equipe 84 e quel mondo del pop italo-beatlesiano degli anni Sessanta, ma mi ha preso allo stomaco fin dal primo ascolto. È difficile, di questi tempi (specie in Italia) trovare una canzone che abbia una scrittura così lineare e apparentemente elementare ma così potentemente espressiva.

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