Esce una quantità di dischi senza senso e non vi è addetto ai lavori che possa starci dietro. Così, mentre magari ti tocca frequentarne di brutti o anche discreti ma inutili, finisci per lisciarne di ben più intriganti, salvo magari scoprirli mesi o anni dopo. Andava così per il sottoscritto con l’album prima – il terzo ma era come fosse il secondo, visto che l’omonimo esordio autoprodotto del 2010 fuori da Los Angeles era passato del tutto inosservato – di questo quartetto che sin dal nome rivendica(va) le proprie radici ispaniche. A farmi investigare “Freedom Is Free” era, più che la presenza nelle zone basse di qualche playlist, la fantasmagorica copertina di gusto etno-lisergico. Si rivelava all’altezza quanto ascoltavo, policroma fantasia di funk latino alla Santana prima maniera, soul alla Curtis Mayfield, tropicalismo alla Os Mutantes, psichedelia westcoastiana. Piccolo dettaglio: ascoltavo nel dicembre 2017 un disco uscito a marzo e per una recensione era troppo tardi. Per “Invisible People” mi sono prenotato sulla fiducia.
Grande lo sconcerto di primo acchito. Come fosse un altro gruppo, benché i musicisti siano sempre i quattro che lo fondavano. Fatto è che costoro si sono incamminati, senza però tappe intermedie, sulla medesima strada presa da una sigla molto celebre e celebrata quale Tame Impala, anch’essa partita da un ambito in parte di neo-psichedelia e approdata a un pop di impronta marcatamente elettronica. Pure in “Invisible People” i synth hanno preso inopinatamente il sopravvento ma per fortuna, passaggio dopo passaggio, una qualità di scrittura che resta alta comincia a emergere, nello iato in ogni caso ampio fra massicci electro-funk e brani più ariosi per i quali si potrebbe parlare di French Touch. Insomma: promossi. Però “Freedom Is Free”…
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.421, luglio 2020.