Il 19 febbraio, anticipato da un frastuono mediatico inaudito per un gruppo le cui vendite finora si sono misurate non in milioni ma nemmeno in centinaia di migliaia di copie a titolo, è infine arrivato nei negozi “Standards”, quarto o quinto (a seconda che si conti o meno la raccolta di remix “Rhythms, Resolutions & Clusters”) album dei Tortoise. Al solito prevedibilissimo il gioco delle parti inscenato dalla stampa nel Bel Paese (vanno diversamente le cose altrove: “The Wire” ha speso una copertina avendo ogni buona ragione per farlo): chi per primo, in tempi non sospetti, cantò le lodi della Tartaruga chicagoana fa ora mostra di schifarla un po’; chi quando debuttò quasi non si accorse della sua esistenza cerca di recuperare il tempo perduto per mantenersi à la page. Aspettiamo che Daniel Givens arrivi pure lui al quarto disco adulto e ne riparleremo, volete? Per intanto il quesito è: merita, “Standards”, tutto questo bailamme? Sì e no. Sì se si tiene da conto la rilevanza dei suoi autori per il rock, “post-” ma non solo, dell’ultimo decennio: l’impressione è che, quando si potranno tirare le somme con il distacco indotto dal trascorrere degli anni, a simboleggiare i ’90 saranno chiamati, più che i Nirvana (o i Radiohead o i Nine Inch Nails o gli Oasis, o chi volete voi), proprio i Tortoise. No, se si considera che è opera che offre conferme, non sorprese. Solido classicismo piuttosto che rivoluzioni, che del resto sono faccenda irripetibile, come la perdita della verginità. La sua la Tartaruga l’ha smarrita sette anni or sono. Usciva allora, dopo un paio di prescindibili singoletti preparatori, un omonimo debutto in lungo a suo modo tanto innovativo da mutare le coordinate di ciò che si intende come rock. Da indurre addirittura a parlare di post-rock, etichetta peraltro mai accettata dalla compagine americana, che nel mentre supera definitivamente l’estetica del punk continua (si vedano tutte le recenti interviste) a richiamarsi alla sua etica.
Il post-rock, allora. Con significativa coincidenza temporale, il critico inglese Simon Reynolds usava per la prima volta tale definizione proprio nel 1994, in maggio per essere precisi, in un concettuoso articolo uscito sul già menzionato mensile “The Wire”. Non in riferimento ai Tortoise, che non poteva conoscere, né a una scena di Chicago ancora tutta in nuce, ma per dire di una serie di gruppi britannici – Seefeel, Bark Psychosis, Main, Stereolab, Pram, Moonshake, Scorn i più noti – che, pur suonando con la strumentazione del rock, ne rifiutavano le pietre angolari del riff e della forma canzone, optando invece per una sperimentazione tendente a una libertà di forme derivante dal jazz elettrico davisiano come dal dub, dalla psichedelia più espansa come dal minimalismo, dal krautrock come dalla no wave e dal noise più destrutturato, dalla ambient, dalla musica concreta. Stile con nel DNA la propensione a un constante divenire, che se traeva ispirazione da un canone ormai accettato in ambito rock (antesignani conclamati, tedeschi a parte: Velvet Underground, Pink Floyd, Cabaret Voltaire, P.I.L., Joy Division, Jesus And Mary Chain, My Bloody Valentine) contemporaneamente lavorava al suo superamento. Annotava Reynolds tirando le somme: “Per i gruppi post-rock, l’idea dei Sonic Youth di ‘reinventare la chitarra’ significa in realtà eliminare il rock dalla musica con le chitarre; in alcuni casi, il passo successivo è eliminare le chitarre”. Post-rock come nemesi dell’imperante grunge, dunque. Fra le tante altre cose.
Non era – vale ripeterlo – dei Tortoise che stava parlando ma, aggiungendo al quadro l’assenza del cantato e l’uso dello studio di registrazione come vero e proprio strumento, e includendo fra le influenze l’astratto folk di John Fahey (presenza pure più vistosa nei lavori dei Gastr Del Sol), quanto scrisse descrive perfettamente il sound che il gruppo dell’Illinois espose nel suo prodigioso esordio (su Thrill Jockey, label cui i Nostri sono rimasti fedeli).
Prosegue per altre 7.495 battute su Venerato Maestro Oppure ─ Percorsi nel rock 1994-2015. Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.431, 27 febbraio 2001.
Riprendo in mano il tuo libro sul post rock, scritto a due mani con Bianchi, e trovo appuntato da me a fine pagina il totale dei dischi con le stelle maggiori: 15 cinque stelle, 38 quattro stelle e mezzo, 128 quattro stelle. Eccesso di entusiasmo o rimani d’accordo su quanto scritto? Ps il libro è una figata! Ciao
Quel libro fu veramente una creazione a quattro mani: contenuti perlopiù targati SIB, forma finale mia. Diciamo che lui si assunse la responsabilità della maggior parte della composizione, io diedi un apporto abbastanza nettamente minoritario rispetto al suo ma poi revisionai/arrangiai il tutto. E insomma fatto è che mentre Stefano ha certamente in casa tutti i dischi affrontati io ne ho una percentuale elevata ma non la totalità. È anzi addirittura possibile che alcuni (per quanto veramente pochi) io non li abbia sentiti mai. Sui voti naturalmente mediammo rispetto a tutti gli ascolti comuni. Li confermeremmo oggi? Boh. Certamente non tutti, anche perché un riascolto odierno verrebbe influenzato da una prospettiva storica che allora, facendo in molti casi cronaca in diretta, non potevamo avere.