L’irresistibile ascesa dei National (su “High Violet”, a dieci anni dall’uscita)

A recuperare in qualche modo ─ facile come bere un bicchier d’acqua: andate su YouTube e lo troverete (stupisce il numero bassissimo di visualizzazioni); altra faccenda volerselo mettere in casa: auguri! ─ un ascolto del mini “Ruther 3429” che unico testimonia la breve esistenza dei Nancy vi stupirete come poco, quasi nulla (diciamo l’acerba ballata Export) nel ruvido garage-punk con influenze wave che lo caratterizza (altra eccezione una Track 10 con qualche malriposta ambizione avant) anticipi l’inconfondibile sound, già quasi perfettamente formato, con il quale i National da lì a cinque anni si presenteranno al mondo con un omonimo album. Eppure: lì cominciavano a farsi le ossa, nella natia Cincinnati, Ohio, il cantante Matt Berninger e il bassista Scott Devendorf. Era il 1996. Poco dopo i ragazzi si trasferivano a New York, quartiere di Brooklyn, dove nel 1998 li raggiungeva il fratello di Scott, Bryan, in precedenza batterista con tali Project Nim che, diversamente dai Nancy, non hanno lasciato testimonianze discografiche. Tuttavia importanti in questa storia giacché ne facevano parte anche i gemelli Aaron e Bryce Dessner, principalmente chitarristi ma in seconda battuta entrambi pure tastieristi e il primo bassista e armonicista alla bisogna. Bryan li presentava a Matt e Scott. Schierati dapprincipio a quattro – organico comprendente oltre a Berninger la sezione ritmica formata dai Devendorf e Aaron Dessner alla chitarra – i neonati National si assicuravano presto una residenza al Luna Lounge, Lower East Side. Era nondimeno solo lo scoppiare della cosiddetta “bolla delle dot-com” a indurli, avendo perso impieghi discretamente remunerativi, a provare a trasformare in professione un hobby cui riservavano in precedenza soltanto i fine settimana. Non stavano a cercarsi un’etichetta. A dare alle stampe nel 2001 “The National” era la Brassland, fondata dai Dessner in collaborazione con l’ex-freelance per (fra gli altri) “New York Times” e “LA Weekly” Alec Hanley Bemis. Nel disco Bryan è solo uno degli ospiti. Si unirà ufficialmente alla band all’indomani della sua uscita. Nei diciannove anni trascorsi da allora, durante i quali i Nostri hanno pubblicato altri sette lavori in studio, la formazione è rimasta invariata. Incredibile a dirsi, con la ricca aneddotica che nella storia del rock documenta epici litigi famigliari (al lettore saranno subito venuti in mente gli Everly, i Davies, i Gallagher, i Robinson), in tutto questo tempo le cronache non hanno mai dato conto di contrasti significativi in un gruppo in cui le coppie di fratelli sono addirittura due.

Gli estimatori di un quintetto la cui ascesa, dal culto che subito lo circondava, a una fama sempre più diffusa sebbene non dai numeri milionari è stata lenta ma costante (e supportata da una stampa invariabilmente in adorazione) si dividono in due fazioni riguardo a quale sia il suo capolavoro. Risultano in maggioranza per quanto marginalmente ma con l’appoggio della critica che più fa giurisprudenza quelli che votano per “Boxer”, del 2007 e album numero quattro dopo “Sad Songs For Dirty Lovers”, che usciva nel 2003 ancora su Brassland, e “Alligator”, che segnava l’approdo nel 2005 alla britannica Beggars Banquet. Si può capire e condividere. È il disco in cui l’incrocio primigenio fra il post-country dei Lambchop e il crepuscolarismo dei Tindersticks, il cantautorato tendente al catatonico di Will Oldham e il pop-rock eccentrico e incantatorio dei Guided By Voices, con uno sguardo rivolto all’Australia gotica di un Nick Cave (così simile al profondo Sud americano di un William Faulkner) e uno a quella scanzonata, ma con un nucleo di malinconia, dei Go-Betweens si innervava definitivamente di sapienti orchestrazioni di ottoni e archi, con anche le tastiere a ricavarsi uno spazio maggiore. Barocco, eppure in qualche ineffabile modo austero, con squisita contraddizione in termini. Ma se è ai numeri che si guarda è il successivo di tre anni “High Violet”, primo su 4AD presso cui i newyorkesi d’adozione sono tuttora accasati, a vincere a mani basse, un numero 5 UK e 3 USA (solamente “Sleep Well Beast” farà formalmente meglio, primo nel Regno Unito e secondo in patria, però totalizzando vendite decisamente meno cospicue). In ogni caso album splendido ed è la seconda volta che su “Audio Review” gli dedichiamo così ampio spazio. All’uscita era “disco del mese” e il tempo ci ha dato ragione. Riascoltato, non sembra invecchiato di un giorno e conferma nel congedo Vanderlyle Crybaby Geeks ─ un quarto di Paul McCartney, uno di Brian Wilson, uno di Scott Walker e uno di Leonard Cohen ─ l’articolo più memorabile nell’intero catalogo di una band solita crescere alla distanza, che aristocraticamente (da un po’ hanno preso a chiamarli “i Radiohead americani”) di rado porge riff o melodie che agganciano al volo. Incomprensibilmente manco la proponevano come singolo, i National, per quanto per promuovere l’album una Bloodbuzz Ohio all’incrocio fra Arcade Fire e TV On The Radio non fosse affatto una cattiva scelta. Idem la litania fosca, che nel procedere si gonfia sempre più tesa e fragorosa, di Terrible Love. Ai due estremi del resto: la tambureggiante e spigolosa Lemonworld e la confidenziale e carica di spleen (alquanto American Music Club, per chi se li ricorda) Runaway.

L’occasione per tornare a frequentare “High Violet” è stata offerta da una “10th Anniversary Expanded Edition” su coreografico triplo vinile porpora oppure viola oppure bianco striato di viola o, ancora, azzurro o in alternativa viola con indefinibili chiazzature più chiare. I collezionisti possono sbizzarrirsi. Gli altri possono scegliere se investire una cifra importante oppure cercare di recuperare la versione doppio CD del 2010 che già aggiungeva le medesime otto bonus: due lati B, una alternate take, tre registrazioni dal vivo e due pezzi rimasti altrimenti inediti. Uno dei quali, lo spumeggiante vaudeville Wake Up Your Saints (un’autentica gemma), non si capisce proprio perché.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.422, agosto 2020.

1 Commento

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Una risposta a “L’irresistibile ascesa dei National (su “High Violet”, a dieci anni dall’uscita)

  1. Mario78

    La mia canzone preferita, che mi ha fatto conoscere il gruppo in questione diversi anni fa, rimane sempre “Karen” su Alligator, melodia che si imprime subito in testa.

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