Crossover.
Archivi del mese: novembre 2020
Memorabilia (7)
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Bill Callahan – Gold Record (Drag City)
“Hello, I’m Johnny Cash”, si presenta Bill Callahan all’inizio di Pigeons, la traccia che inaugura questo suo settimo lavoro in studio da solista (conteggio cui vanno aggiunti gli undici a nome Smog che pubblicò fra il 1990 e il 2005). Scappa da ridere, prima di arrendersi al fascino di una canzone squisita, valzerino che una tromba mariachi colloca sul border. E quando il brano sta sfumando… ehi! aspetta un attimo… che ha detto? Torni indietro e verifichi che sì, hai sentito bene: “sincerely, L. Cohen” (come da finale di Famous Blue Raincoat). E quante volte nelle recensioni di dischi del nostro uomo sono stati citati l’uno o l’altro o entrambi i giganti di cui sopra? Ah, ma anche (più di rado) Ry Cooder e proprio Ry Cooder si intitola il penultimo dei dieci brani che danno vita a “Gold Record”. Sorta di finto “Greatest Hits” che l’autore ha messo insieme ripescando canzoni scritte in un ampio arco di tempo ma rimaste tutte tranne una ─ Let’s Move To The Country, che nel 1999 apriva “Knock Knock”, il settimo album degli Smog ─ inedite. Ed ecco spiegato come mai ha impiegato così poco a dare un seguito all’eccellente “Shepherd In A Sheepskin Vest”, che si era invece fatto aspettare sei anni.
In ogni caso di fresca realizzazione le incisioni (hanno dato man forte in studio il chitarrista Matt Kinsey, il bassista Jaime Zuverza e assortiti ospiti) si porgono tutt’altro che come gli scarti che sarebbero, con una freschezza che conferma il momento di grazia di un artista che pare avere trovato nel matrimonio la medicina capace di curare un’uggia proverbiale. Spiccano fra il resto una languida The Mackenzies, un’ilare Cowboy aperta e chiusa fischiettando e As I Wander, delicata, dolcissima, la più “orchestrata” del lotto.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.424, ottobre 2020.
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It’s a sad and beautiful world – La magia di Nick Drake
“Il tempo mi ha detto/che sei una rara scoperta/una cura problematica/per una mente problematica” (Time Has Told Me)
È una stupenda mattina di inizio luglio, il cielo così terso da far temere che possa andare in frantumi come cristallo, la ferocia del sole ingentilita da una brezza lieve e insomma tutto è disegnato dalla luce con contorni tanto netti da dare alle cose un che di allucinato. A Nick Drake sarebbe piaciuta, lui che adorava l’estate e morì al limitare di un inverno, trenta tondi anni fa, dopo averne vissute appena ventisei di belle stagioni. E mi pare una buona ragione, a parte il fatto che è appena uscita l’ennesima raccolta (“Made To Love Magic”) che cerca di offrire improbabili epifanie frugando in cassetti purtroppo vuoti, per starmene seduto alla scrivania a discettare, una volta di più, di un irrisolvibile enigma. Invece che andarmene a passeggio in un parco spiando pigramente innocenze e amori. Mi gingillo in cerca di un titolo, mentre nel mio studio risuonano quei Concerti Brandeburghesi di Johann Sebastian Bach che furono l’ultima musica che Drake ascoltò, la sera che per errore o per scelta esagerò con il Tryptizol. Un antidepressivo, a riprova che ogni tragedia cela una qualche ironia. Sul comodino Il mito di Sisifo di Albert Camus, un saggio sul suicidio e sull’assurdità della vita. E mi domando quale l’ultimo disco, quale l’ultimo libro invece di Ian MacDonald, che certamente di sua volontà ci ha lasciati una notte dell’ultimo agosto e del ragazzo di Tanworth-In Arden (vedete voi: persino il luogo in cui visse evoca il bucolico) era coetaneo. Si conobbero anche, entrambi studenti a Cambridge nell’anno accademico 1968-69, e colui che sarebbe diventato il Vate della critica musicale britannica poté, in tutti i sensi stupefatto, ascoltare il giovane Nick eseguire nella sua stanza, per un modesto pubblico di ragazzi ammirati e fanciulle immediatamente innamorate, Time Has Told Me, sei mesi prima dell’uscita di “Five Leaves Left”. Parecchio di memorabile firmerà Ian MacDonald ma fra quanto mi è capitato di leggere niente sorpassa Be Here Now, una lunghissima analisi dell’esistenza breve e tormentata, della psicologia e naturalmente dell’opera di Nick Drake pubblicata su “Mojo” nel gennaio 2000.
Mi ci sono reimmerso ieri, scoprendola ancora più grande che nel ricordo. Intimidito, risfoglio quelle pagine e un possibile titolo mi viene da lì: Man of constant sorrow, come il classico proto-country. Ma sarebbe tradire MacDonald, che appunto nega che tutto in Drake sia sempre stato male di vivere, razionalizzato – perché (dice lui che per sua disgrazia se ne intendeva) “depression can be rational” – in un approccio romantico all’esistenzialismo. Aggiungerci un punto interrogativo? Un’altra idea fa capolino, riflettendo su come ciascuno dei tre LP che compongono quasi per intero il corpus drakiano si rapporti a una stagione: potrebbe allora essere, parafrasando uno strambo e poetico film coreano appena visto, Estate, autunno, inverno… e basta. E poi chissà quale sinapsi scatta e mi viene in mente Roberto Benigni, in Down By Law. Perfetto così.
Prosegue per altre 6.933 battute su Venerato Maestro Oppure ─ Percorsi nel rock 1994-2015. Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.588, 20 luglio 2004. A oggi sono trascorsi quarantasei anni dacché Nick Drake ci lasciava. Ne aveva ventisei.
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Memorabilia (6)
Ho visto i R.E.M. dal vivo due volte. La prima di spalla c’erano i Go-Betweens. Me li persi. La seconda i Grant Lee Buffalo. Non me li ricordo.
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Bettye LaVette – Blackbirds (Verve)
Fa effetto ─ alla vigilia di elezioni che vedono concorrere per la vice-presidenza una donna in parte afroamericana; mentre il razzismo è tornato a occupare il centro della narrazione di un Big Country in guerra civile strisciante ─ che qui Bettye LaVette osi l’inosabile: confrontarsi con la Billie Holiday di Strange Fruit. Come se dacché nel 1939 Lady Day a sua volta osava l’inosabile, cantando di un linciaggio, in fondo poco o non abbastanza sia cambiato. A dispetto degli otto anni in cui ciò che era inimmaginabile quando Abel Meeropol (un ebreo) la scrisse, ossia un nero alla Casa Bianca, aveva fatto pensare che il Sogno del Reverendo King si stesse facendo realtà. È mossa arditissima, ma agli azzardi artistici questa interprete straordinaria, prossima a festeggiare i settantacinque anni ma la cui carriera è decollata solo nel 2003, ci ha felicemente abituati. Scommessa anche stavolta vincente?
Non riesco a decidermi al riguardo: è una splendida versione e però la sento un filo manieristica per una di cui Bonnie Raitt disse (si riferiva al capolavoro del 2005 “I’ve Got My Own Hell To Raise”) che “mai il dolore è sembrato così funky”. È che con questo secondo lavoro su Verve, dopo gli anni alla Anti- decisivi per la sua (ri)scoperta e il breve soggiorno alla Cherry Red, la signora ha svoltato jazz, o quasi. Il gusto sofisticato è quello anche quando l’occasionale florilegio di wah wah, o una batteria un po’ più secca se non sferzante, o un basso che strappa energico rispetto a un passo altrimenti di felina eleganza, spostano gli equilibri più verso il blues. Diversamente dal passato, mai verso il rock. Nemmeno nella traccia quasi omonima, che arriva dal doppio bianco dei Beatles ed è resa come fosse una nuova Over The Rainbow, un’altra What A Wonderful World.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n. 424, ottobre 2020.
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Gli anni rumorosi di Graham Parker
“Oggi come oggi è l’unico cantante per il quale pagherei volentieri un biglietto.” (Bruce Springsteen, 1978)
Racconta Graham Parker di avere incrociato un’unica volta in vita sua Joe Strummer. Era il giugno del 1976 quando, al termine di uno spettacolo al Marquee di Londra, gli si parò davanti nei camerini un giovanotto che l’allora manager Dave Robinson gli presentò come “Joe, il cantante degli 101ers”. Invece di commentare il concerto appena visto, o di parlargli di sé, il futuro (a brevissimo, questione di giorni) frontman dei Clash domandava se gli fosse già capitato di vedere i Sex Pistols. Alla risposta negativa il suo commento era “sono tutta un’altra faccenda loro, la roba più nuova che ci sia in giro”. “Ehi! Aspetta un momento!”, dice di avere pensato e solo pensato il nostro uomo. “Sono io la roba più nuova che ci sia in giro.” Avendo appena dato alle stampe il primo album, un debutto salutato da una critica pressoché unanime come una boccata di aria fresca, l’eroe di questa storia si scopriva prematuramente obsoleto. Avrà agio, negli oltre tre decenni e mezzo trascorsi, di rendersi conto di come fosse sì un danno dal punto di vista mercantile ma in assoluto non un male: le mode passano, la Canzone resta. La sua prima dozzina di canzoni memorabili era a quel punto già in catalogo. Se ne aggiungeranno innumerevoli altre: belle e qualcuna bellissima, agre ma con un cuore romantico, sovente eccitanti, talvolta commoventi. L’ultima dozzina si è disvelata poche settimane fa e ha fatto in fretta a diventare un’ossessione – piacevole – e un rimpianto: per tutti i dischi, anche i più riusciti, licenziati dopo il 1980 nei quali i Rumour con ci sono, o al massimo ve n’è uno o due. Incensato nello scorso numero di questo giornale, “Three Chords Good” ribadisce un paio di verità inoppugnabili delle quali ci si andava scordando: che i Rumour stanno a Graham Parker come gli Heartbreakers a Tom Petty, o la E Street Band a Springsteen; e che continua a essere questo il podio dei più grandi gruppi di classic rock da metà anni ’70 in qua. Gioiose, invincibili macchine da guerra.
Ci sono amori che cominciano con un colpo di fulmine, altri che sbocciano dopo lunghe frequentazioni. Gli appuntamenti al buio sono il rifugio dei disperati e più facile che fruttino, al meglio, uno strofinamento piuttosto che una storia importante. Questa vicenda comincia con un appuntamento al buio. A parte che Dave Robinson – che non ha ancora fondato la Stiff e per intanto gestisce un locale, l’Hope & Anchor, cruciale ritrovo per quanti nella capitale britannica remano contro la deriva prog – gliene ha detto un gran bene, i Rumour non hanno idea di chi sia quel venticinquenne basso, smilzo e nervoso che si trovano di fronte in sala prove. Sono appieno giustificati. È un Signor Nessuno la cui fama, e si fa sul serio per dire, non ha mai valicato i confini del villaggio del Surrey nel quale ha vissuto sin da bambino. Avrà un bel favoleggiare nella prima intervista di peso, pubblicata dal mensile “Zigzag” nel gennaio ’77, di complessini capeggiati sin dalla verde età di tredici anni, prima tali Deep Cut Three (dal nome del borgo) devoti ai Beatles e poi talaltri Black Rockers in una vena di rhythm’n’blues urbano à la Stones. Per carità: può pure darsi che sia tutto vero e nondimeno più ci si inoltra in una narrazione picaresca – con tanto di soggiorni fra ’60 e ’70 a Guernsey e Gibilterra e peregrinazioni marocchine a capo di tali Narziss, descritti come un gruppo space rock con influenze sia di folk acido alla Incredible String Band che black – e più vengono in mente (anche perché in altre versioni del medesimo racconto il gruppo si chiama Pegasus) le mirabolanti panzane di un altro maestro sicuro, il Giovane Dylan. Quel che è certo è che, dopo avere flirtato con la cultura Mod e consumato ingenti quantitativi di sostanze psichedeliche (ne farà sempre propaganda, sconcertando qualcuno fra gli esegeti del suo rock operaio), il ragazzo si è guadagnato il pane e un tetto con una successione di lavori precari e lo farà sempre ridere la definizione che gli appiccicheranno di ex-benzinaio (“Un caso. Avrei potuto benissimo essere ‘l’ex-panettiere di Deepcut’.”). Quel che è certo è che c’è un sacco di America nelle sue corde e nei suoi accordi e che – in ritardo sull’ondata cantautorale alla James Taylor come sul glam, in anticipo sul punk – nessuno in Gran Bretagna in quel momento scrive musica così. Bravo Robinson a coglierlo nei demo un po’ raffazzonati che gli sono giunti fra le mani. E quello che infine è indiscutibile è che, benché la cittadina dalla quale proviene non disti che qualche decina di chilometri da Londra, il Nostro sarebbe perfetto per la parte del tipico villico ignorante. Lui dovrebbe difatti sapere sì chi ha dinnanzi. Il tastierista Bob Andrews e il chitarrista Brinsley Schwarz provengono dal complesso che prendeva il nome da quest’ultimo, stupenda combriccola americanofila con all’attivo sei LP uno più sapido dell’altro, dapprincipio sorta di propaggine nel Regno Unito di Crosby, Stills & Nash come dei Grateful Dead riconvertitisi al country e a fondo corsa apripista power pop per i Dr. Feelgood come per Eddie & The Hot Rods. L’altro chitarrista, Martin Belmont, arriva dagli stilisticamente affini e non meno strepitosi Ducks Deluxe e quanto alla sezione ritmica – al basso Andrew Bodnar, alla batteria Stephen Goulding – è stata quella dei Bontemps Roulez. Insomma: una sorta di supergruppo pub rock e questo peserà naturalmente nella sistemazione nella suddetta casella di colui che per un lustro sarà il capobanda. Parker ne sarà sempre e da subito, e con più di qualche ottima ragione, infastidito, ma tant’è: prezzo modesto da pagare per l’intesa alchemica che immediatamente si crea.
Prosegue per altre 20.145 battute su Venerato Maestro Oppure ─ Percorsi nel rock 1994-2015. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.177, febbraio 2013. Graham Parker compie oggi settant’anni.
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Bright Eyes – Down In The Weeds, Where The World Once Was (Dead Oceans)
Il contrasto fra l’ultimo album di Conor Oberst che recensivo, “Ruminations” del 2016, e questo che è il primo a nome Bright Eyes da nove anni in qua, non potrebbe essere più clamoroso. Quello, penultimo disco da solista per un oggi quarantenne che pubblicava tredicenne la prima cassettina, una collezione di ballate intimiste per sole voce e chitarra o voce e piano, con un’armonica ad affacciarsi ogni tanto. Questo, con giusto una traccia su quattordici, Hot Car In The Sun, che sarebbe potuta stare pure su quello, è in genere iperarrangiato. Una cosa in comune hanno: la capacità di disegnare melodie di un classicismo pop accostabile ad alcuni dei più grandi maestri del genere. Se quattro anni fa concludevo scrivendo che, se soltanto avesse voluto, il nostro uomo avrebbe potuto essere il James Taylor della sua generazione, o il Paul Simon, stavolta i nomi da citare sono Burt Bacharach e Brian Wilson, Leonard Cohen e Billy Joel. D’altronde Oberst ─ all’attivo un catalogo sterminato di incisioni attribuite a una mezza dozzina di diverse ragioni sociali ─ ha sempre praticato di tutto, nell’ampissimo arco compreso dal country al noise. Produzione straripante e in ogni senso ineguale, nella quale magari si stenta a rintracciare un capolavoro totale ma sono diversi gli album notevoli. Pure gli scivoloni, eh?
“Down In The Weeds…” appartiene alla prima categoria, anche se ogni tanto in questo dilagare inesausto (un paio di altre eccezioni: il synth-pop Pan And Broom, il folk-rock Tilt-A-Whirl) di ritmiche rutilanti, archi e ottoni peraltro orchestrati magnificamente e non meno sontuose armonie vocali che vanno a sommergere pure certi attacchi strimpellati un filo di nostalgia dei Bright Eyes indie rock viene. Poi passa.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.424, ottobre 2020.
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Audio Review n.425
È in edicola da inizio settimana il numero di novembre di “Audio Review”. Ho recensito i nuovi album di A Certain Ratio, Andy Bell, Benjamin Biolay, Aloe Blacc, Drive-By Truckers, Heliocentrics, June Of 44, Kevin Morby, Grant-Lee Phillips, Gregory Porter, Hugo Race, Sufjan Stevens, Yusuf/Cat Stevens e Laura Veirs e una ristampa di Coolio. Nella rubrica del vinile ho dedicato un’intera pagina a un grande classico di Buddy Guy & Junior Wells e un paio di migliaia di battute ai Twisted Sister (dei quali non pensavo proprio che avrei mai scritto in vita mia).
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Throwing Muses – Sun Racket (Fire)
Vale per questo anno infame e per il mondo intero, ma davvero del decimo album in studio delle Throwing Muses (giusto continuare a chiamarle così, al femminile, anche se Tanya Donnelly se ne andò nel ’91 e da allora è tornata, e occasionalmente, solo come ospite; ma Kristin Hersh resta “commander in chief”) si può dire che sia nato sotto una cattiva stella. Annunciato in febbraio con il midtempo grunge Dark Blue ad anticiparlo e un’uscita fissata per il 22 maggio, la sua pubblicazione è stata rinviata a inizio settembre per l’emergenza Covid-19. Solo che, come si usa per permettere ai giornali su carta di uscire con le recensioni in contemporanea ai siti, già in marzo era stato messo nella disponibilità degli addetti ai lavori e più d’uno, distratto, ne ha scritto allora. Sei mesi prima dell’arrivo nei negozi! Esito: un disco mezzo bruciato che l’impossibilità di promuoverlo dal vivo finirà di uccidere in culla. Ed è proprio un peccato.
Tant’è. Qui si auspica non vada così e per il resto non si può fare, dopo la cronaca, che critica. Annotando che è il più convincente degli appena tre lavori prodotti in una seconda vita principiata nel 2003 da una band che fu artefice del pop chitarristico più nevrotico ─ sghembo e pieno di spigoli, acido (solforico, non lisergico) e debitore in egual misura al country-rock più lunare e alla new wave ─ mai uditosi prima che i Pixies spostassero ancora più in là i paletti, aprendo la strada ai Nirvana. Da un album complessivamente ruvido con apici in una Bo Diddley Bridge dall’ossianico al baroccheggiante, in una Upstairs Dan molto PJ Harvey, in una St. Charles dove la Magic Band di Captain Beefheart scopre il piacere di aggrapparsi a un riff emerge un’inedita tendenza ad affidarsi a giri di valzer. Basta che non siano gli ultimi.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.423, settembre 2020.
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The Boy With A Thorn In His Side – Una piccola esegesi di Mark Eitzel
“Ciò che mi appassiona è scrivere di esseri umani: omosessuali, normali, bianchi, neri; di vita, morte e salvazione.” (ME, 1996)
Mi sia consentito iniziare con un’annotazione personale: qualche mese fa sono diventato, in quanto critico, maggiorenne. Nel senso che sono trascorsi diciotto anni da quando pubblicai, proprio su queste pagine, il mio primo articolo. Ci sono giorni in cui sono felice del mestiere che mi è toccato in sorte. In altri, indirizzo improperi a chi guardò con occhio tanto benevolo i primi pezzi che gli spedii, accompagnati da una letterina arrogante mica male che avrebbe dovuto illuminarlo sul mio caratteraccio. Mi accade soprattutto, a parte quando mi arrivano gli estratti conto dalla banca (un consiglio da amico: se volete diventare ricchi non datevi al giornalismo musicale), quando le scadenze incalzano e fra i cumuli immani di CD frugo alla ricerca di qualcosa di degno di nota e piombo nello sconforto per la pochezza di emozioni vere che la sovrabbondante produzione discografica odierna mi trasmette. Sarà che quando in vita tua hai scrutinato all’incirca un venti-venticinquemila album tendi a essere un po’ più esigente di quanto non fossi a vent’anni, sarà che l’ascolto coatto (come tutte le cose cui si è costretti) di per sé non predispone bene, fatto sta che ci sono giorni in cui a scrivere di dischi mi vengono in mente quelle parole di Cobain nel suo addio al mondo, riguardo (vado a memoria) al sentirsi falsi. Ma per fortuna (mi deciderei a cambiare lavoro, se no) non è sempre così. Perché prima o poi dal mucchio (eh eh…) sbuca sempre quell’album che ti colpisce al cuore e ti ricorda all’improvviso perché un bel dì vagheggiasti di imbrattare carta da giornale. Per la stessa ragione per cui Mark Eitzel si è messo a comporre canzoni: perché è appassionante scrivere di esseri umani, vita, morte e salvazione.
Eitzel ha saputo spesso toccarmi nell’intimo, con la commovente discrezione che fu di uno dei suoi eroi, Nick Drake. Sarebbe potuto diventare il Morrissey della sua generazione e invece no, siano dannati gli dei che così hanno disposto. Devono averlo fregato l’onnipresente pizzetto che confonde sull’età, il mancato arresto dello sviluppo a una situazione mentale di eterno adolescente e soprattutto il passaporto americano, anche se va detto che in Gran Bretagna divenne oggetto di culto molto prima (e di più) che a casa sua. A quanto pare, essere l’Oscar Wilde del rock’n’roll (insomma…) è/era più chic che non esserne il Raymond Carver. Sia come sia, mi pare evidente che fra il Nostro e lo Stephen degli Smiths qualche affinità ci sia. Intento a scrutare le scalette dei suoi lavori, prima da leader degli American Music Club, quindi da solista, alla ricerca di un titolo per questo pezzo, ho improvvisamente realizzato che il catalogo smithsiano si prestava assai meglio alla bisogna. Sono arrivati al ballottaggio due titoli e avete visto quale ho scelto. Quale fosse il secondo, lo scoprirete prima di giungere alla fine.
Sebbene sia mediamente di una malinconia che sconfina talvolta nell’angoscia, ho trascorso una giornata bellissima (ri)passando al vaglio l’opera omnia di Mark Eitzel. Si sa, la musica triste ha qualità redentrici, rasserenanti.
Prosegue per altre 12.576 battute su Venerato Maestro Oppure ─ Percorsi nel rock 1994-2015. Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.442, 15 maggio 2001.
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