Vale per questo anno infame e per il mondo intero, ma davvero del decimo album in studio delle Throwing Muses (giusto continuare a chiamarle così, al femminile, anche se Tanya Donnelly se ne andò nel ’91 e da allora è tornata, e occasionalmente, solo come ospite; ma Kristin Hersh resta “commander in chief”) si può dire che sia nato sotto una cattiva stella. Annunciato in febbraio con il midtempo grunge Dark Blue ad anticiparlo e un’uscita fissata per il 22 maggio, la sua pubblicazione è stata rinviata a inizio settembre per l’emergenza Covid-19. Solo che, come si usa per permettere ai giornali su carta di uscire con le recensioni in contemporanea ai siti, già in marzo era stato messo nella disponibilità degli addetti ai lavori e più d’uno, distratto, ne ha scritto allora. Sei mesi prima dell’arrivo nei negozi! Esito: un disco mezzo bruciato che l’impossibilità di promuoverlo dal vivo finirà di uccidere in culla. Ed è proprio un peccato.
Tant’è. Qui si auspica non vada così e per il resto non si può fare, dopo la cronaca, che critica. Annotando che è il più convincente degli appena tre lavori prodotti in una seconda vita principiata nel 2003 da una band che fu artefice del pop chitarristico più nevrotico ─ sghembo e pieno di spigoli, acido (solforico, non lisergico) e debitore in egual misura al country-rock più lunare e alla new wave ─ mai uditosi prima che i Pixies spostassero ancora più in là i paletti, aprendo la strada ai Nirvana. Da un album complessivamente ruvido con apici in una Bo Diddley Bridge dall’ossianico al baroccheggiante, in una Upstairs Dan molto PJ Harvey, in una St. Charles dove la Magic Band di Captain Beefheart scopre il piacere di aggrapparsi a un riff emerge un’inedita tendenza ad affidarsi a giri di valzer. Basta che non siano gli ultimi.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.423, settembre 2020.