Il contrasto fra l’ultimo album di Conor Oberst che recensivo, “Ruminations” del 2016, e questo che è il primo a nome Bright Eyes da nove anni in qua, non potrebbe essere più clamoroso. Quello, penultimo disco da solista per un oggi quarantenne che pubblicava tredicenne la prima cassettina, una collezione di ballate intimiste per sole voce e chitarra o voce e piano, con un’armonica ad affacciarsi ogni tanto. Questo, con giusto una traccia su quattordici, Hot Car In The Sun, che sarebbe potuta stare pure su quello, è in genere iperarrangiato. Una cosa in comune hanno: la capacità di disegnare melodie di un classicismo pop accostabile ad alcuni dei più grandi maestri del genere. Se quattro anni fa concludevo scrivendo che, se soltanto avesse voluto, il nostro uomo avrebbe potuto essere il James Taylor della sua generazione, o il Paul Simon, stavolta i nomi da citare sono Burt Bacharach e Brian Wilson, Leonard Cohen e Billy Joel. D’altronde Oberst ─ all’attivo un catalogo sterminato di incisioni attribuite a una mezza dozzina di diverse ragioni sociali ─ ha sempre praticato di tutto, nell’ampissimo arco compreso dal country al noise. Produzione straripante e in ogni senso ineguale, nella quale magari si stenta a rintracciare un capolavoro totale ma sono diversi gli album notevoli. Pure gli scivoloni, eh?
“Down In The Weeds…” appartiene alla prima categoria, anche se ogni tanto in questo dilagare inesausto (un paio di altre eccezioni: il synth-pop Pan And Broom, il folk-rock Tilt-A-Whirl) di ritmiche rutilanti, archi e ottoni peraltro orchestrati magnificamente e non meno sontuose armonie vocali che vanno a sommergere pure certi attacchi strimpellati un filo di nostalgia dei Bright Eyes indie rock viene. Poi passa.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.424, ottobre 2020.