Bettye LaVette – Blackbirds (Verve)

Fa effetto ─ alla vigilia di elezioni che vedono concorrere per la vice-presidenza una donna in parte afroamericana; mentre il razzismo è tornato a occupare il centro della narrazione di un Big Country in guerra civile strisciante ─ che qui Bettye LaVette osi l’inosabile: confrontarsi con la Billie Holiday di Strange Fruit. Come se dacché nel 1939 Lady Day a sua volta osava l’inosabile, cantando di un linciaggio, in fondo poco o non abbastanza sia cambiato. A dispetto degli otto anni in cui ciò che era inimmaginabile quando Abel Meeropol (un ebreo) la scrisse, ossia un nero alla Casa Bianca, aveva fatto pensare che il Sogno del Reverendo King si stesse facendo realtà. È mossa arditissima, ma agli azzardi artistici questa interprete straordinaria, prossima a festeggiare i settantacinque anni ma la cui carriera è decollata solo nel 2003, ci ha felicemente abituati. Scommessa anche stavolta vincente?

Non riesco a decidermi al riguardo: è una splendida versione e però la sento un filo manieristica per una di cui Bonnie Raitt disse (si riferiva al capolavoro del 2005 “I’ve Got My Own Hell To Raise”) che “mai il dolore è sembrato così funky”. È che con questo secondo lavoro su Verve, dopo gli anni alla Anti- decisivi per la sua (ri)scoperta e il breve soggiorno alla Cherry Red, la signora ha svoltato jazz, o quasi. Il gusto sofisticato è quello anche quando l’occasionale florilegio di wah wah, o una batteria un po’ più secca se non sferzante, o un basso che strappa energico rispetto a un passo altrimenti di felina eleganza, spostano gli equilibri più verso il blues. Diversamente dal passato, mai verso il rock. Nemmeno nella traccia quasi omonima, che arriva dal doppio bianco dei Beatles ed è resa come fosse una nuova Over The Rainbow, un’altra What A Wonderful World.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n. 424, ottobre 2020.

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