“Il tempo mi ha detto/che sei una rara scoperta/una cura problematica/per una mente problematica” (Time Has Told Me)
È una stupenda mattina di inizio luglio, il cielo così terso da far temere che possa andare in frantumi come cristallo, la ferocia del sole ingentilita da una brezza lieve e insomma tutto è disegnato dalla luce con contorni tanto netti da dare alle cose un che di allucinato. A Nick Drake sarebbe piaciuta, lui che adorava l’estate e morì al limitare di un inverno, trenta tondi anni fa, dopo averne vissute appena ventisei di belle stagioni. E mi pare una buona ragione, a parte il fatto che è appena uscita l’ennesima raccolta (“Made To Love Magic”) che cerca di offrire improbabili epifanie frugando in cassetti purtroppo vuoti, per starmene seduto alla scrivania a discettare, una volta di più, di un irrisolvibile enigma. Invece che andarmene a passeggio in un parco spiando pigramente innocenze e amori. Mi gingillo in cerca di un titolo, mentre nel mio studio risuonano quei Concerti Brandeburghesi di Johann Sebastian Bach che furono l’ultima musica che Drake ascoltò, la sera che per errore o per scelta esagerò con il Tryptizol. Un antidepressivo, a riprova che ogni tragedia cela una qualche ironia. Sul comodino Il mito di Sisifo di Albert Camus, un saggio sul suicidio e sull’assurdità della vita. E mi domando quale l’ultimo disco, quale l’ultimo libro invece di Ian MacDonald, che certamente di sua volontà ci ha lasciati una notte dell’ultimo agosto e del ragazzo di Tanworth-In Arden (vedete voi: persino il luogo in cui visse evoca il bucolico) era coetaneo. Si conobbero anche, entrambi studenti a Cambridge nell’anno accademico 1968-69, e colui che sarebbe diventato il Vate della critica musicale britannica poté, in tutti i sensi stupefatto, ascoltare il giovane Nick eseguire nella sua stanza, per un modesto pubblico di ragazzi ammirati e fanciulle immediatamente innamorate, Time Has Told Me, sei mesi prima dell’uscita di “Five Leaves Left”. Parecchio di memorabile firmerà Ian MacDonald ma fra quanto mi è capitato di leggere niente sorpassa Be Here Now, una lunghissima analisi dell’esistenza breve e tormentata, della psicologia e naturalmente dell’opera di Nick Drake pubblicata su “Mojo” nel gennaio 2000.
Mi ci sono reimmerso ieri, scoprendola ancora più grande che nel ricordo. Intimidito, risfoglio quelle pagine e un possibile titolo mi viene da lì: Man of constant sorrow, come il classico proto-country. Ma sarebbe tradire MacDonald, che appunto nega che tutto in Drake sia sempre stato male di vivere, razionalizzato – perché (dice lui che per sua disgrazia se ne intendeva) “depression can be rational” – in un approccio romantico all’esistenzialismo. Aggiungerci un punto interrogativo? Un’altra idea fa capolino, riflettendo su come ciascuno dei tre LP che compongono quasi per intero il corpus drakiano si rapporti a una stagione: potrebbe allora essere, parafrasando uno strambo e poetico film coreano appena visto, Estate, autunno, inverno… e basta. E poi chissà quale sinapsi scatta e mi viene in mente Roberto Benigni, in Down By Law. Perfetto così.
Prosegue per altre 6.933 battute su Venerato Maestro Oppure ─ Percorsi nel rock 1994-2015. Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.588, 20 luglio 2004. A oggi sono trascorsi quarantasei anni dacché Nick Drake ci lasciava. Ne aveva ventisei.
Un antidoto alla grossolanità che imperversa, Drake e Bach. Grazie, Maestro, per questi articoli intensi e delicati.