Archivi del mese: dicembre 2020

Blow Up. n.272

Il 2020 ancora non è finito e già è in edicola il primo “Blow Up” del 2021. Delle sue 144 pagine dieci sono occupate da un articolo in cui, prendendo a pretesto i cinquant’anni (e un mese; ma non formalizziamoci) trascorsi dalla pubblicazione del capolavoro “No Dice”, celebro il genio dei Badfinger e ne racconto la storia: nel grande romanzo del rock, probabilmente la più triste di tutte.

P.S. – Se siete abbonati avete ricevuto in grazioso omaggio insieme al giornale il libro di Federico Guglielmi Iggy Pop – L’indomito. Se non lo siete, il volume è comunque acquistabile separatamente.

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Laura Veirs – My Echo (Bella Union)

Racconta Laura Veirs che il video di Burn Too Bright, il brano che ha anticipato di alcuni mesi il suo undicesimo album, è stato girato in marzo, appena prima che anche lì scattasse il lockdown. Vi si vedono lei, i due figli di sette e dieci anni e la babysitter tracciare con gessetti colorati scritte e disegni sull’asfalto di un parcheggio. Il giorno dopo diluviava e l’acqua lavava via tutto. Fin troppo appropriato per una canzone in memoria del cantautore e produttore Richard Swift, che la Veirs non ha mai conosciuto ma con cui condivideva molte amicizie, e in cui si parla per l’appunto del fuoco che fa brillare particolarmente taluni ma nel contempo consumandoli. Per un disco che rinnova un sodalizio, con Tucker Martine (sua per l’ennesima volta la regia), che è però solo più artistico e non anche sentimentale, giacché i due hanno divorziato e l’ombra di questa separazione inevitabilmente si allunga su “My Echo”. Che parla di disintegrazione, apatia, della consapevolezza di come tutto sia effimero. E nondimeno ─ questo l’argomento di Mermaloose Island, la più vivace (paradossalmente, ineffabilmente: alla pari con la summenzionata Burn Too Bright) delle dieci tracce ─ talvolta ci si sorprende egualmente grati di esser vivi.

In un’altra epoca, gli anni ’70 delle cantautrici confessionali, l’artista di Colorado Springs sarebbe stata una star. Nella sua e nostra l’apice è stato toccato con una collaborazione con la Nonesuch che fra il 2004 e il 2007 fruttava tre album eccellenti ma venduti ai soliti “happy few”. Se incuriositi, una Another Space And Time che adombra la bossa nova, la sbarazzina cantabilità di Turquoise Walls, il favolismo folk di Bricklayer potrebbero indurvi a iscrivervi al club.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.425, novembre 2020.

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Christmas Is

Auguri old skool da uno della vecchia scuola. Statemi bene, per quel che si può in quest’anno che non vediamo l’ora di rottamare.

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A Certain Ratio – ACR Loco (Mute)

A volte ritornano e in realtà ormai si stenta a trovare nel rock gruppo di una qualche rilevanza che non abbia avuto una seconda, terza o quarta vita, fintanto che morte non ne abbia separato infine i componenti e in certi casi manco quello è bastato a far dire basta. Con il disturbante effetto per chi sta da quest’altra parte della barricata della musica di trovarsi a scrivere degli stessi nomi di cui scriveva da giovane ora che la terza età incombe. Però a dire il vero gli A Certain Ratio non sono mai andati via e per due ragioni: una è che, pur lasciando trascorrere periodi talvolta assai lunghi fra un tour e l’altro, fra un album (il predecessore di “ACR Loco”, “Mind Made Up”, è del 2008) e il successivo, non si sono mai sciolti; e l’altra e più importante è che non solo il catalogo storico è stato ristampato a più riprese ma suona tuttora moderno, attuale. Più influenti nel secolo nuovo che nel vecchio, i mancuniani, con il loro appropriarsi con attitudine wave di un funk dapprima algido e via via, infiltrato come veniva di pop e influenze latine, sempre meno. Cerebrali e danzabili, per un verso in anticipo sui concittadini New Order che archiviavano i Joy Division, per un altro contraltare UK dei Talking Heads.

“ACR Loco” esibisce freschezza e potenza a tratti da non crederci. Da una Friends Around Us che decolla psych-jazz, vola funk e atterra d’n’b alla collisione fra samba ed electro di Taxi Guy, con in mezzo canzoni minimo al pari travolgenti come Bouncy Bouncy e la schiettamente disco Family (con le quali purtroppo ci saluta la grandissima Denise Johnson), o una kraftwerkiana Supafreak, e giusto un paio invece un po’ così (così): Always In Love, fra britpop e techno-pop; una Berlin da Depeche Mode in fissa motorik.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.425, novembre 2020.

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Scrivere è riscrivere

Numero tondo: fra settimanali, mensili, bimestrali, trimestrali, semestrali e siti web e buttandoci dentro anche un paio di fanzine alle quali pure altri professionisti davano una mano, ho collaborato in vita mia a venti diverse testate giornalistiche. Ho scritto di musica di chiunque e per chiunque e tranne la prima, quando come raccontavo nella prefazione alla raccolta di articoli brevi Venerato Maestro Oppure mi proposi ventunenne a “Il Mucchio Selvaggio”, incasinandomi l’esistenza per sempre, non ho cercato una sola di queste collaborazioni. Mai mandato in giro un curriculum. È sempre stato un editore, un direttore, un caporedattore a contattarmi e chiedermi se poteva interessarmi avviare un rapporto, che si è poi avviato se la risposta alla domanda lasciata cadere casualmente “quanto a cartella?” era di mio gradimento. A pensarci bene, un’unica altra volta fui io a mettermi sulla piazza. Mi dissero OK, mi assegnarono tre recensioni, non le pubblicarono. Vabbé, arrivederci e grazie. Quel giornale è scomparso da un pezzo, io sono ancora qui. E adesso vi rivelerò un paio di cose che non tutti sanno. Una è che occasionalmente ho scritto sotto pseudonimo, o articoli apparsi come redazionali e quindi non firmati (e sotto i quali non avrei comunque messo il mio nome manco mi avessero pagato il doppio o il triplo): trattavasi in un caso di intemerate che forse un giorno tirerò fuori sul mio blog, anche se a rileggerle oggi non sono quasi mai d’accordo con me stesso e probabilmente non lo ero neanche allora, ma mi andava di provocare; in precedenza mi era capitato di fare da ufficio stampa in rigoroso incognito per un festival jazz; un bel po’ più avanti e più ignobilmente mi ritroverò (sponsorizzava una nota compagnia telefonica e credo di non essere mai stato retribuito così tanto per scrivere così poco) a tracciare brevi profili di partecipanti a un altro festival, quello di San Remo (mi astenni dall’esprimere le mie vere opinioni al riguardo). Un’altra è che per un attimo fuggente (2005: le rate del mutuo andavano impennandosi a un ritmo preoccupante) mi sono ritrovato a lavorare nel dorato mondo della pubblicità e cito fra i marchi cui ho prestato ben remunerati servigi As Do Mar, Deutsche Bank, Sigma-Tau. Non era fico come raccontare dei Flamin’ Groovies ma pecunia non olet e quando serve, serve.

Ora: per essere uno che si è sempre guadagnato da sopravvivere scrivendo, non è che scrivere mi piaccia così tanto. In questo preciso momento farei volentieri tutt’altro. Che so? Guardare la neve che cade o una puntata di Better Call Saul. Mettere su un CD del box che documenta una residenza di Sun Ra in un locale di Detroit che ho in casa da minimo dieci anni durante i quali credo di non essere ancora arrivato ad ascoltare il decimo dischetto (sono ventotto; a questa media spero di non trovarmi pure io su Saturno prima di aver finito). Prestare ascolto al saggio consiglio che Tom Petty impartisce nel ritornello di You Don’t Know How It Feels. Perché lo so bene, io, come mi sento quando si tratta di attaccare il trecentesimo o su di lì giro di recensioni, di porre mano a una rubrica, a un articolo. Magari di quelli lunghi. Mi sento da schifo. Fatto è che, diversamente da alcuni colleghi di mia conoscenza che accumulano cartella su cartella come se avessero una vocina in testa che detta, io non sono per niente un natural born writer. Pensavo di esserlo ai tempi del liceo. Quando scrissi quasi di getto i primi pezzi e ancora per alcuni anni, con l’entusiasmo del neofita a sorreggermi e nonostante si trattasse di un processo di un macchinoso oggi inconcepibile, che passava per la redazione di una brutta e una bella copia scritte a mano e una terza, definitiva, battuta a macchina. Nulla mi ha mai cambiato in meglio la vita come passare nel 1991 a usare un pc e, di conseguenza, un word processor. E però, paradossalmente, il potere tornare su un paragrafo o una singola frase, un sostantivo, un aggettivo, e rimodellare fino a essere davvero soddisfatto dell’assieme, o fino alla telefonata o alla mail di minacce di chi sta aspettando ch’io partorisca, ha paurosamente diminuito la mia media di battute per ora. Per quanto virtuale il foglio bianco mi è sembrato sempre più minaccioso e si è riempito con lentezza via via più esasperante, perché ogni cosa che scrivo la scrivo enne volte. Se sono alle prese con una recensione o la scheda di un’opera enciclopedica risulta relativamente faticoso e di norma il tempo che dedico a tagliarla per ridurla alla lunghezza richiesta (una cosa che ho così imparato è che una parola in meno è quasi sempre meglio di una in più; sfrondare migliora) è più di quello che ho impiegato a scriverla. Se è un articolo, be’, la faccenda può farsi estenuante. Quanto? Tipo da farti dire, pregare, sognare “mai più”.

Però rileggersi alla fine è fantastico. Un attimo prima di inviare al committente. Quando ti arriva la rivista e sfogli le pagine su pagine frutto del tuo patire. Ma, soprattutto, se ti capita di farlo a distanza di anni o persino decenni e tutto risulta nuovo, come fosse opera di un altro. Uno bravo, e scusate l’immodestia, e credetemi se vi dico che sono il giudice più severo di me stesso. Se no, non passerei più tempo a riscrivere che a scrivere.

Come appuntavo all’inizio ho accumulato sudate carte per una ventina di giornali. Quelli cui resto maggiormente legato sono quattro. Naturalmente al defunto “Il Mucchio”, di cui sono stato in assoluto il secondo collaboratore di più lungo corso nell’arco di due differenti periodi, dal febbraio 1983 al luglio 1988 e poi dal novembre 1999 al dicembre 2012. È stata una grande storia d’amore (l’ho sempre detto: alle altre riviste collaboravi, nel “Mucchio Selvaggio” militavi) sfortunatamente finita malissimo. Poi a “Velvet”, che fondavo nell’estate del 1988 con Federico Guglielmi e un’altra persona che non mi va nemmeno di nominare e chiudeva i battenti nel giugno di quattro anni dopo. Dentro “Blow Up”, pur con qualche momento di pausa per varie ragioni, ci sono orgogliosamente dal numero 0, quello che veniva distribuito aggratis nei negozi di dischi nel marzo 1997. In questo momento ho sulla scrivania il numero 271 e ogni volta che mi trovo quello nuovo nella buca delle lettere mi sale un moto di incredulità per il fatto che un mensile da sempre assemblato in casa da un’unica persona non soltanto vada avanti da ventitré anni (che diventano venticinque contando i due da fanzine) ma non sia uscito una singola volta con un giorno di ritardo. Non fateglielo sapere, ché già ha un ego delle dimensioni del Granducato di Toscana, ma Stefano Isidoro Bianchi (con il quale ho avuto alcune delle più accese discussioni della mia vita) è uno dei miei eroi. Mi ha sempre dato più o meno carta bianca e tre dei sedici articoli radunati in questo libro (altri tre figureranno fra i diciassette di un secondo volume che ho in animo di dare alle stampe fra esattamente un anno) sono usciti in origine su “Blow Up”. La prima testata musicale italiana a pubblicare anche monografie lunghe, lunghissime, talvolta di decine di pagine e a puntate, all’inizio più sull’attualità che sul passato e oggi giocoforza viceversa. La parola chiave nella frase che avete appena letto è “anche”. Perché nel Bel Paese c’è stata un’unica rivista che scelse invece di dedicarsi (tolte alcune rubriche e una sezione recensioni) “solo” all’approfondimento e quella rivista fu “Extra”, diramazione del “Mucchio” per trentotto (mi spiace: per me già il 39 non conta e figurarsi i pochi e imbarazzanti successivi) memorabili numeri, con frequenza prima trimestrale e poi semestrale, dalla primavera 2001 all’estate 2012. Su quei trentotto numeri firmai complessivamente trenta articoli, ventuno dei quali ebbero l’onore di essere quello di copertina.

Professionalmente parlando “Extra” (sulla cui genesi mi spenderò magari nella prefazione di Extraordinaire Vol.2; qualche argomento debbo ben tenerlo da parte) è stato il mio incubo più bello. Ognuno dei trenta articoli di cui sopra ha richiesto almeno tre settimane di ricerche, letture e riascolti e quanto alla scrittura si è portato via minimo cinque giornate lavorative di dieci, dodici, quattordici ore cadauna. Conservo ancora quadernoni formato A4 fitti di appunti, naturalmente a penna, di decine di pagine per pezzo. E insomma ciascuno degli articoli che state per leggere, invariabilmente affrontato sapendo che era la sola occasione per dire tutto quanto avevo da dire sul solista o il gruppo preso in esame (escluderei che scriverò mai più in maniera così estesa degli anni ’60 di Bob Dylan o se no dei Doors, di Randy Newman o di Patti Smith), mi è costato un mese di vita durante il quale ho dovuto naturalmente dedicarmi anche al resto, a un’ordinaria amministrazione che era rappresentata da qualche pezzo più breve, una o due rubriche e pacchi di recensioni per altri giornali. Più varie ed eventuali e insomma una roba da morirci e non in metafora. Però mi rileggo e mi dico che ne è valsa la pena. Però con questa pletora di materiali adesso ho confezionato un libro e nel 2021, se tutto va bene, ce ne farò un altro.

Come Venerato Maestro Oppure, anche Extraordinaire Vol.1 (il lettore avrà notato che si occupa di artisti tutti americani; su Gran Bretagna e un po’ di resto di mondo ci si spenderà nella seconda puntata) segue un suo percorso logico oltre che cronologico, andando a comporre nell’insieme uno scorcio di storia del rock. Diversamente da quello si presta meno, per la lunghezza dei pezzi, a venire piluccato, ma nulla lo vieta. Partite da dove vi pare. Buon viaggio.

Torino, 4 dicembre 2020

Tratto da Extraordinaire 1 ─ Di musiche e vite fuori dal comune. Se non l’avete già ordinato ormai non vi arriverà più in tempo per trovare collocazione sotto l’albero di Natale. Però secondo me la calza della Befana la riempirebbe proprio bene. Al posto vostro, ed è un consiglio naturalmente del tutto disinteressato, un pensierino ce lo farei. Potete acquistarlo qui.

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The Heliocentrics – Telemetric Sounds (Madlib Invazion)

Per chi aveva letto un’intervista pubblicata su un noto mensile britannico all’altezza dell’uscita in febbraio di “Infinity Of Now” l’arrivo nei negozi di un secondo album degli Heliocentrics a sette mesi da un predecessore che si era fatto attendere quasi tre anni non è una sorpresa. Il batterista Malcolm Catto, da sempre e cioè dal 2005 il punto fermo (assieme al bassista Jake Ferguson) intorno a cui ruota il collettivo londinese, già ne parlava, svelandone oltre al titolo le singolari modalità di realizzazione: frutto in parte di una jam di quaranta minuti decollata mentre i musicisti attendevano in studio il ritorno della cantante Barbora Patkova, in pausa pranzo, e poi editata, con a integrare la scaletta altri strumentali distanti dal mood prevalente nel disco dato alle stampe per primo. Per quanto (dico io e a suo tempo lo scrissi) in quella stupenda sinossi di uno stile musicale imprendibile a base di funk e jazz elettrico, psichedelia e krautrock, trip-hop, musiche etniche e colonne sonore di impronta ’60/primi ’70 a tratti facessero capolino degli Heliocentrics singolarmente ansiogeni e malevoli, come mai in precedenza. Sentimento che in “Telemetric Sounds” si fa dominante.

Accade così che un disco inciso prima che il covid-19 mettesse il mondo a soqquadro si ritrovi a offrire fondali perfetti per questi tempi lividi, con un po’ di requie giusto quasi a fondo corsa, con una flemmatica e in odore di blaxploitation The Opening, un attimo prima che una stralunata, dissonante Left To Our Own Devices chiuda il cerchio aperto da una traccia omonima fra il motoristico e il derviscio. Curiosamente, dalle ritmiche sghembe e dai fraseggi free di Devistation balena un’eco dei Pink Floyd di Money.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.425, novembre 2020.

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Audio Review n.426

È in edicola dalla fine della scorsa settimana il numero di dicembre di “Audio Review”. Contiene mie recensioni dei nuovi album di Autechre, The Bongolian, Bootsy Collins, Budos Band, Bully, Shemekia Copeland, Future Islands, Fuzztones, Ed Harcourt, Jeremy Ivey, Lambchop, Oneohtrix Point Never e Jeff Tweedy, di una ristampa super Deluxe di Tom Petty e di un cofanetto degli Allison Run. Nella rubrica del vinile ho scritto del grande classico della Butterfield Blues Band “East-West”.

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Lotta impari

Stavolta non ce la posso proprio fare. A conquistare la vetta della classifica di settore e quasi monopolizzarla per due mesi filati, con anche qualche successivo ritorno di fiamma. Ubi Liga, VM cessat.

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Disponibile

Ordinabile a partire da oggi e se lo fate entro fine questa settimana/inizio prossima vi arriverà in tempo per il Santo Natale. E volete non avere sotto l’albero la mia prima antologia di articoli lunghi (quelli lunghi davvero)? Qui, integrando con tre pezzi pubblicati in origine su “Blow Up” fra il 2003 e il 2017, raccolgo le monografie dedicate a solisti e gruppi americani che scrissi per “Extra” fra il 2001 e il 2012. In “Extraordinaire 1” potrete leggere di Elvis Presley e degli anni ’60 di Bob Dylan, dei Velvet Underground e della Summer of Love, di Jimi Hendrix, Janis Joplin, Doors, Tim e Jeff Buckley, Creedence Clearwater Revival, Lowell George, Bruce Springsteen, Randy Newman, Laura Nyro, Patti Smith, R.E.M., Savage Republic. 270 pagine, € 23. Solo su Amazon.

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Last Gang In Town – Il rock ai tempi di Internet degli Arctic Monkeys

Nel momento in cui scrivo mancano tre giorni alla pubblicazione europea di “AM” (“L’abbiamo intitolato così in onore dei Velvet Underground, l’omaggio è naturalmente a ‘VU’”: Alex Turner dixit), album numero cinque per gli Arctic Monkeys, da Sheffield come gli Smiths erano da Manchester. Naturalmente, non c’è sulla faccia della terra una singola persona interessata a questo quartetto di tuttora under 30 (ricordate quando il rock era musica giovane? se sì, avete i vostri begli anni) che già non l’abbia ascoltato. Un po’ perché il gruppo stesso ne ha concesso lo streaming in anteprima. Un po’ perché lo stabilire date di uscita differenti per differenti mercati fa sì che, un minuto dopo che il disco ha visto la luce nel primo, diventi ovunque di pubblico dominio. Cosa che poi succederebbe comunque, anche senza la collaborazione degli artefici, giacché è ormai una rarità assoluta un disco minimamente atteso che non fa capolino in Rete con più o meno ampio anticipo sull’effettiva pubblicazione. Essendo ragazzi di mondo, gli Arctic Monkeys certi meccanismi li conoscono e li sfruttano. Hanno fatto circolare la copertina già lo scorso luglio, un primo singolo era stato dato alle stampe addirittura in febbraio, un secondo gli è andato dietro a giugno, un terzo a metà agosto e un altro paio di canzoni ancora sono state disvelate in popolari programmi televisivi o radiofonici. Disvelate per modo di dire, siccome un tour promozionale di ben sessanta date fra Nordamerica e Vecchio Continente ha preceduto “AM” in luogo che seguirlo ed ecco, nessuno nemmeno fra i luddisti che ne auspicherebbero un’inverosimile scomparsa si è mai spinto, nelle giaculatorie sui danni che sarebbero venuti alla musica da Internet, ad asserire che pure alla musica dal vivo faccia del male. Essendo evidente a chiunque che quantomeno alla musica dal vivo Internet ha fatto, fa e farà, sempre di più, un sacco di bene.

Va da sé che non può essere questa la sede per dibattere di come la Rete abbia mutato il nostro rapporto con la musica o il cinema, i libri o i giornali, cambiamento epocale, tumultuoso, copernicano che non ha mancato di lasciare sul campo morti e feriti, non troppo diversamente da come ce li lasciarono l’invenzione della stampa o del motore a scoppio. Mi limiterò ad annotare ciò che parrebbe ovvio ma per tanti sembra non esserlo: che ogni volta che l’umanità va avanti chi resta fermo viene lasciato indietro e si condanna da solo all’irrilevanza, all’estinzione; che, quando l’onda monta, se ti opponi ne verrai sommerso, se la cavalchi ne sarai salvato. Trovatisi in acqua senza manco rendersene conto, i debuttanti Arctic Monkeys impararono subito a nuotare. Prontezza di riflessi e intelligenza ne hanno fatto in fretta surfer provetti.

Non c’era mai stata una storia di successo come quella di questi giovanotti semplicemente perché, prima di loro, non esistevano condizioni atte a propiziarla, uno scenario simile in cui ambientarla.

Prosegue per altre 11.756 battute su Venerato Maestro Oppure ─ Percorsi nel rock 1994-2015. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.185, ottobre 2013. Degli Arctic Monkeys è appena uscito un “Live At The Royal Albert Hall” registrato nel 2018.

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