Dice il maggiore dei Butler, Win, che il lockdown si è rivelato propizio per gli Arcade Fire per concentrarsi sulla scrittura del successore di “Everything Now”. Speriamo venga meglio di quello che era il secondo e più grave inciampo in una vicenda artistica principiata con tre album clamorosi: uno più bello dell’altro e fra i non molti che possano essere detti “epocali” nel rock di questi primi due decenni di secolo. Dice il minore dei Butler, Will, che ha fatto appena in tempo a ultimare le registrazioni di questa che è la sua seconda uscita da solista (terza con un live) prima che il lockdown si mettesse di mezzo. Andava solo più mixato il disco. Dire che fosse atteso… be’, anche no. Il succinto predecessore del 2015, “Policy”, aveva regalato una manciata di canzoni convincenti se prese una per una ma che sommate non riuscivano a fare, per l’eccessiva varietà di stili, un album.
Nessuna aspettativa pesava dunque sul successore e che sorpresa che catturi fin dal primo ascolto. Di più cospicuo minutaggio (tre quarti d’ora contro mezz’ora scarsa) e non meno eclettico dell’esordio, con tuttavia stavolta come un filo invisibile a legare in qualche miracoloso modo brani che sulla carta non potrebbero/dovrebbero stare nel medesimo programma come, per limitarsi a citare gli ultimi tre, una Promised molto Peter Gabriel, una Not Gonna Die che potrebbe arrivare dai Queen migliori e una Fine che rimanda a Randy Newman. Da non credersi. Eppure… Però il meglio sta prima e fra il meglio due dei pezzi più travolgenti dell’anno: sfido chiunque a resistere alla collisione fra synth-punk e power pop di Bethlehem e al ritmo scandito da un batter di mani e all’esultante coralità di Surrender. Sicuro di avere ancora bisogno degli Arcade Fire, Will?
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.424, ottobre 2020.