Numero tondo: fra settimanali, mensili, bimestrali, trimestrali, semestrali e siti web e buttandoci dentro anche un paio di fanzine alle quali pure altri professionisti davano una mano, ho collaborato in vita mia a venti diverse testate giornalistiche. Ho scritto di musica di chiunque e per chiunque e tranne la prima, quando come raccontavo nella prefazione alla raccolta di articoli brevi Venerato Maestro Oppure mi proposi ventunenne a “Il Mucchio Selvaggio”, incasinandomi l’esistenza per sempre, non ho cercato una sola di queste collaborazioni. Mai mandato in giro un curriculum. È sempre stato un editore, un direttore, un caporedattore a contattarmi e chiedermi se poteva interessarmi avviare un rapporto, che si è poi avviato se la risposta alla domanda lasciata cadere casualmente “quanto a cartella?” era di mio gradimento. A pensarci bene, un’unica altra volta fui io a mettermi sulla piazza. Mi dissero OK, mi assegnarono tre recensioni, non le pubblicarono. Vabbé, arrivederci e grazie. Quel giornale è scomparso da un pezzo, io sono ancora qui. E adesso vi rivelerò un paio di cose che non tutti sanno. Una è che occasionalmente ho scritto sotto pseudonimo, o articoli apparsi come redazionali e quindi non firmati (e sotto i quali non avrei comunque messo il mio nome manco mi avessero pagato il doppio o il triplo): trattavasi in un caso di intemerate che forse un giorno tirerò fuori sul mio blog, anche se a rileggerle oggi non sono quasi mai d’accordo con me stesso e probabilmente non lo ero neanche allora, ma mi andava di provocare; in precedenza mi era capitato di fare da ufficio stampa in rigoroso incognito per un festival jazz; un bel po’ più avanti e più ignobilmente mi ritroverò (sponsorizzava una nota compagnia telefonica e credo di non essere mai stato retribuito così tanto per scrivere così poco) a tracciare brevi profili di partecipanti a un altro festival, quello di San Remo (mi astenni dall’esprimere le mie vere opinioni al riguardo). Un’altra è che per un attimo fuggente (2005: le rate del mutuo andavano impennandosi a un ritmo preoccupante) mi sono ritrovato a lavorare nel dorato mondo della pubblicità e cito fra i marchi cui ho prestato ben remunerati servigi As Do Mar, Deutsche Bank, Sigma-Tau. Non era fico come raccontare dei Flamin’ Groovies ma pecunia non olet e quando serve, serve.
Ora: per essere uno che si è sempre guadagnato da sopravvivere scrivendo, non è che scrivere mi piaccia così tanto. In questo preciso momento farei volentieri tutt’altro. Che so? Guardare la neve che cade o una puntata di Better Call Saul. Mettere su un CD del box che documenta una residenza di Sun Ra in un locale di Detroit che ho in casa da minimo dieci anni durante i quali credo di non essere ancora arrivato ad ascoltare il decimo dischetto (sono ventotto; a questa media spero di non trovarmi pure io su Saturno prima di aver finito). Prestare ascolto al saggio consiglio che Tom Petty impartisce nel ritornello di You Don’t Know How It Feels. Perché lo so bene, io, come mi sento quando si tratta di attaccare il trecentesimo o su di lì giro di recensioni, di porre mano a una rubrica, a un articolo. Magari di quelli lunghi. Mi sento da schifo. Fatto è che, diversamente da alcuni colleghi di mia conoscenza che accumulano cartella su cartella come se avessero una vocina in testa che detta, io non sono per niente un natural born writer. Pensavo di esserlo ai tempi del liceo. Quando scrissi quasi di getto i primi pezzi e ancora per alcuni anni, con l’entusiasmo del neofita a sorreggermi e nonostante si trattasse di un processo di un macchinoso oggi inconcepibile, che passava per la redazione di una brutta e una bella copia scritte a mano e una terza, definitiva, battuta a macchina. Nulla mi ha mai cambiato in meglio la vita come passare nel 1991 a usare un pc e, di conseguenza, un word processor. E però, paradossalmente, il potere tornare su un paragrafo o una singola frase, un sostantivo, un aggettivo, e rimodellare fino a essere davvero soddisfatto dell’assieme, o fino alla telefonata o alla mail di minacce di chi sta aspettando ch’io partorisca, ha paurosamente diminuito la mia media di battute per ora. Per quanto virtuale il foglio bianco mi è sembrato sempre più minaccioso e si è riempito con lentezza via via più esasperante, perché ogni cosa che scrivo la scrivo enne volte. Se sono alle prese con una recensione o la scheda di un’opera enciclopedica risulta relativamente faticoso e di norma il tempo che dedico a tagliarla per ridurla alla lunghezza richiesta (una cosa che ho così imparato è che una parola in meno è quasi sempre meglio di una in più; sfrondare migliora) è più di quello che ho impiegato a scriverla. Se è un articolo, be’, la faccenda può farsi estenuante. Quanto? Tipo da farti dire, pregare, sognare “mai più”.
Però rileggersi alla fine è fantastico. Un attimo prima di inviare al committente. Quando ti arriva la rivista e sfogli le pagine su pagine frutto del tuo patire. Ma, soprattutto, se ti capita di farlo a distanza di anni o persino decenni e tutto risulta nuovo, come fosse opera di un altro. Uno bravo, e scusate l’immodestia, e credetemi se vi dico che sono il giudice più severo di me stesso. Se no, non passerei più tempo a riscrivere che a scrivere.
Come appuntavo all’inizio ho accumulato sudate carte per una ventina di giornali. Quelli cui resto maggiormente legato sono quattro. Naturalmente al defunto “Il Mucchio”, di cui sono stato in assoluto il secondo collaboratore di più lungo corso nell’arco di due differenti periodi, dal febbraio 1983 al luglio 1988 e poi dal novembre 1999 al dicembre 2012. È stata una grande storia d’amore (l’ho sempre detto: alle altre riviste collaboravi, nel “Mucchio Selvaggio” militavi) sfortunatamente finita malissimo. Poi a “Velvet”, che fondavo nell’estate del 1988 con Federico Guglielmi e un’altra persona che non mi va nemmeno di nominare e chiudeva i battenti nel giugno di quattro anni dopo. Dentro “Blow Up”, pur con qualche momento di pausa per varie ragioni, ci sono orgogliosamente dal numero 0, quello che veniva distribuito aggratis nei negozi di dischi nel marzo 1997. In questo momento ho sulla scrivania il numero 271 e ogni volta che mi trovo quello nuovo nella buca delle lettere mi sale un moto di incredulità per il fatto che un mensile da sempre assemblato in casa da un’unica persona non soltanto vada avanti da ventitré anni (che diventano venticinque contando i due da fanzine) ma non sia uscito una singola volta con un giorno di ritardo. Non fateglielo sapere, ché già ha un ego delle dimensioni del Granducato di Toscana, ma Stefano Isidoro Bianchi (con il quale ho avuto alcune delle più accese discussioni della mia vita) è uno dei miei eroi. Mi ha sempre dato più o meno carta bianca e tre dei sedici articoli radunati in questo libro (altri tre figureranno fra i diciassette di un secondo volume che ho in animo di dare alle stampe fra esattamente un anno) sono usciti in origine su “Blow Up”. La prima testata musicale italiana a pubblicare anche monografie lunghe, lunghissime, talvolta di decine di pagine e a puntate, all’inizio più sull’attualità che sul passato e oggi giocoforza viceversa. La parola chiave nella frase che avete appena letto è “anche”. Perché nel Bel Paese c’è stata un’unica rivista che scelse invece di dedicarsi (tolte alcune rubriche e una sezione recensioni) “solo” all’approfondimento e quella rivista fu “Extra”, diramazione del “Mucchio” per trentotto (mi spiace: per me già il 39 non conta e figurarsi i pochi e imbarazzanti successivi) memorabili numeri, con frequenza prima trimestrale e poi semestrale, dalla primavera 2001 all’estate 2012. Su quei trentotto numeri firmai complessivamente trenta articoli, ventuno dei quali ebbero l’onore di essere quello di copertina.
Professionalmente parlando “Extra” (sulla cui genesi mi spenderò magari nella prefazione di Extraordinaire Vol.2; qualche argomento debbo ben tenerlo da parte) è stato il mio incubo più bello. Ognuno dei trenta articoli di cui sopra ha richiesto almeno tre settimane di ricerche, letture e riascolti e quanto alla scrittura si è portato via minimo cinque giornate lavorative di dieci, dodici, quattordici ore cadauna. Conservo ancora quadernoni formato A4 fitti di appunti, naturalmente a penna, di decine di pagine per pezzo. E insomma ciascuno degli articoli che state per leggere, invariabilmente affrontato sapendo che era la sola occasione per dire tutto quanto avevo da dire sul solista o il gruppo preso in esame (escluderei che scriverò mai più in maniera così estesa degli anni ’60 di Bob Dylan o se no dei Doors, di Randy Newman o di Patti Smith), mi è costato un mese di vita durante il quale ho dovuto naturalmente dedicarmi anche al resto, a un’ordinaria amministrazione che era rappresentata da qualche pezzo più breve, una o due rubriche e pacchi di recensioni per altri giornali. Più varie ed eventuali e insomma una roba da morirci e non in metafora. Però mi rileggo e mi dico che ne è valsa la pena. Però con questa pletora di materiali adesso ho confezionato un libro e nel 2021, se tutto va bene, ce ne farò un altro.
Come Venerato Maestro Oppure, anche Extraordinaire Vol.1 (il lettore avrà notato che si occupa di artisti tutti americani; su Gran Bretagna e un po’ di resto di mondo ci si spenderà nella seconda puntata) segue un suo percorso logico oltre che cronologico, andando a comporre nell’insieme uno scorcio di storia del rock. Diversamente da quello si presta meno, per la lunghezza dei pezzi, a venire piluccato, ma nulla lo vieta. Partite da dove vi pare. Buon viaggio.
Torino, 4 dicembre 2020
Tratto da Extraordinaire 1 ─ Di musiche e vite fuori dal comune. Se non l’avete già ordinato ormai non vi arriverà più in tempo per trovare collocazione sotto l’albero di Natale. Però secondo me la calza della Befana la riempirebbe proprio bene. Al posto vostro, ed è un consiglio naturalmente del tutto disinteressato, un pensierino ce lo farei. Potete acquistarlo qui.
Non c’è un ca#*o da fare: qualsiasi cosa scriva Eddy Cilìa ti cattura. E se non è un merito questo, ditemi voi cos’altro possa esserlo.
Preso! Buone Feste Eddy!
Grazie per gli auguri e per l’acquisto. Buone feste a te.