I migliori album del 2020 (12): Porridge Radio – Every Bad (Secretly Canadian)

La nuova PJ Harvey? È talmente forte la personalità di Dana Margolin, attorno alla quale questo quartetto quasi tutto al femminile ha preso corpo dopo che l’autrice, cantante e chitarrista di Brighton già aveva registrato dei demo da sola, che qualunque paragone pare sminuente. E tuttavia un po’ sì: indirizzano in tal direzione una voce capace di sedurre ma più spesso aspra e ruggente, musiche dinamiche quanto spigolose con un retrogusto folk e insieme echi al pari forti di post-punk e Magic Band via Pavement, liriche femministe non didascalicamente. Dopodiché, sono passati quasi trent’anni da quando Polly Jean si affacciava alla ribalta, il mondo è cambiato, quell’impatto non è replicabile nel contesto odierno e non c’è recensione esaltata di un “New Musical Express” (cinque stellette) che tenga quando il settimanale che per decenni ha formato i gusti dei giovani britannici manco va più in edicola, è un sito come tanti e meno autorevole di diversi che sul web ci sono nati. La Harvey veniva eletta subito a personaggio, Dana difficilmente si troverà sui tabloid, con ogni probabilità i Porridge Radio rimarranno appannaggio della stampa specializzata, al più analizzati sulle pagine culturali di chi ha la fortuna di avere giornali le cui pagine culturali trattano la popular music con la stessa attenzione di letteratura e cinema.

“Every Bad” per la band è il secondo album ma è tanto marcato lo scarto qualitativo rispetto a un esordio datato 2016 di cui peraltro nessuno si accorse che si può considerarlo un debutto. E che debutto! Denso e articolato, trascinante, stordente a volte fino al fastidio e vi sfido a non abbassare il volume giunti al cacofonico finale di Lilac. Salvo subito rialzarlo incantati dall’attacco (depistante, vi accorgerete) a passo di valzer di Circling. A seguire: il solo tocco di “modernità”, nel senso deteriore del termine, rappresentato dall’autotune nella sospesa e stridula (Something) e il rilassato tambureggiare sotto tastiera solenne con conclusiva impennata tribale di Homecoming Song. In precedenza, da citare ancora almeno Born Confused, che inaugura avanzando a strappi e stabilendo il tono dell’intero lavoro, l’alternarsi fra cantilenare folky e un procedere da bulldozer di una Sweet ben poco “sweet” (più avanti, una Pop Song per niente pop), una Don’t Ask Me Twice di guerriera oscurità quasi Killing Joke e infine Give/Take: la più new wave del lotto, ma senza uno stereotipo che sia uno alle viste.

Pubblicato per la prima volta in una versione più breve su “Audio Review”, n.419, aprile 2020.

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