Nella sua esilarante carriera di candido truffatore, sorta di idiot savant dell’arte moderna, Andy Warhol ha fatto un sacco di cose. Le tre per cui è più ricordato sono: i quadri (che tutti conoscono); i film (che nessuno sano di mente ha mai guardato per intero); l’avere scoperto i Velvet Underground (tanto universalmente noti ormai che qualche tempo fa si poté sentire un loro brano ridotto a musichetta per un consiglio per gli acquisti). L’Andy pittore incontrò i Velvet (è ragionevole affermare che la copertina con la banana sia oggi la sua opera più celebre; più del ritratto di Marilyn o della lattina Campbell). L’Andy cineasta, purtroppo, mai. Oh, certo, Lou Reed e sodali suonavano all’“Exploding Plastic Inevitable” galleggiando nello scorrere di pellicole warholiane come un feto nel liquido amniotico. Ma, per quanto incredibile possa sembrare, al regista autore di alcuni dei lavori più leggendariamente provocatori e inutili della storia del cinema ─ qualche esempio: Blow Job (un’inquadratura fissa di trenta minuti, sopra la cintola; Sleep (sei ore e mezza con John Giorno che dorme); Empire (otto ore con la camera puntata su un grattacielo in cui non succede nulla) ─ mai venne in mente che avrebbe potuto più proficuamente usare un po’ di celluloide per immortalare almeno uno spettacolo dei suoi protetti. Così, non avendo a disposizione una macchina del tempo possiamo solo cercare di immaginare concerti che i testimoni raccontano molto più estremi dei dischi (compreso il disco più estremo, “White Light/White Heat”; compreso il brano più estremo, Sister Ray), destrutturate orge di feedback fra abbandono e violenza. Né ci vengono in soccorso i tanti live postumi, tutti accomunati, legali e non, da una qualità sonora variamente disdicevole. Nemmeno “1969”, che pure si fa immaginare come uno dei più grandi doppi dal vivo del suo o di qualunque altro tempo, ci aiuta, ritraendo un gruppo trattenuto e talvolta persino alla ricerca del bell’intarsio. Meglio sotto questo punto di vista il recente primo tomo della collana “Bootleg Series”, che quantomeno ammannisce tre Sister Ray discretamente toste (una di trentotto minuti) e un altro tot di distorsioni in raga, ma non ci siamo ancora. Sei stato imperdonabile, Andy.
Mancando i film, tocca accontentarsi delle fotografie e qui a noi posteri va parecchio meglio. Ce n’è arrivata un’apprezzabile quantità e non poche di eccezionale potenza iconografica. La primissima formazione (quella con Angus MacLise) su un tetto di una New York che sembra Quarto Oggiaro. Nico verginea e sexy che percuote il tamburello fra luttuosi Caronte scappati dall’Ade. Moe Tucker che leva alto il mazzuolo su un tamburo. Sterling Morrison in studio, chitarra distrattamente a tracolla, magrissimo. John Cale e Lou Reed a una festa con Warhol, John impossibilmente giovane e fico e con un calice in mano. Lou sonnecchiante su un divano, una mano di Andy sul pacco. Ancora Lou e Andy e in mezzo in effige un Elvis cowboy, pistola in pugno. I Velvet al completo fra la folla della Factory, confusi e inconfondibili. La più triste e cool di tutte: Lou Reed al Max’s Kansas City il 23 agosto 1970, la sua ultima notte con la band, postura rigida e sguardo allucinato perso nel vuoto.
Mi sono accostato ai Velvet Underground, durante un’adolescenza sciatta parzialmente redenta dalla scoperta della musica e da poco altro, grazie a un album non loro e a una fotografia. L’album è “Rock’n’Roll Animal”, fumigante live in cui Lou Reed rileggeva hard quattro classici della sua vellutata gioventù. Ventiquattro anni dopo rammento ancora il momento in cui la Intro è trafitta dal riff di Sweet Jane come un’epocale epifania. La foto è una delle più famose e utilizzate (l’ho ritrovata qualche tempo fa in copertina di un libretto di Peter Hogan per la Omnibus Press) dell’archivio dei Nostri. Vista casualmente su una qualche rivista che non ho conservato, mi catturò con irresistibile magnetismo. Sulla destra John Cale, giacca scura, girocollo pece, barba di qualche giorno, capelli lisci spioventi sulle spalle, sguardo che si intuisce fisso in camera ma è celato, come quelli di Morrison e Reed, da impenetrabili lenti nere nelle quali si riflette la strada. Grandi indossatori di occhiali da sole i nostri eroi. Utili la sera per proteggersi dall’abbagliante parco luci del circo warholiano, tornavano comodi di giorno, oltre che per tirarsela e stabilire en passant un dettato estetico del rock, per celare pupille fatte a spillo dagli stravizi chimici. Non a caso, anche in questo scatto Maureen, l’unica sobria della compagnia, è la sola a non portarli. Se i lineamenti raccontano più anni di quanti non avesse l’espressione è da bambina, tenerissima. Pure Lou, ovviamente al centro e che al contrario degli altri non guarda in macchina, sorride. È però un sorriso birbante (più smaliziato, posso ora dirlo: quasi certamente un ghigno da anfetamina) da ragazzetto che ha appena ordito una carognata e ne pregusta gli effetti. Labbra ancora sporche di latte e di innocenza nondimeno. Ecco: quello che mi colpì e tuttora mi colpisce è il misto di innocenza e di minaccia che traspare. Cattive compagnie di cui faresti bene a non fidarti. Quindi da frequentare assolutamente.
Prosegue per altre 36.240 battute su Extraordinaire 1 – Di musiche e vite fuori dal comune. Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.4, inverno 2001. Non se ne fosse andato il 27 ottobre 2013, settantunenne, Lou Reed compirebbe oggi settantanove anni.
Uno degli scritti più memorabili del Venerato Maestro. L’articolo (l’articolo? Il saggio!) sta alla storia del giornalismo musicale come l’oggetto dello stesso sta alla storia della musica rock. Well, I take my hat off to you, Eddy. For the umpteenth time!
Thank you very, very much.
trasuda amore. ricordo ancora un delirante viaggio massa napoli in auto con sister ray in loop che nemmeno kowalski
Il primissimo articolo da me letto sui Velvet Underground (una bella fortuna, sì), sul mio primo Mucchio Extra (la lista dei cento anni Sessanta contenuta in quel numero fu un testo sacro per me). Ricordo ancora il freddo che faceva mentre tornavo a casa la sera che mi decisi a comprarlo passando davanti l’edicola. Il giorno dopo andai da Elastic Rock a prendere il disco con la banana e poi vabbè… Grazie. Punto.
Sul Mucchio hanno scritto in tanti, ma nessuno, a mio sindacabile e acerbo giudizio, ha mai raggiunto il livello di Eddy Cilìa e del Carlo Bordone più ispirato. Questa retrospettiva sui Velvet Underground è da scuola di giornalismo. E il fatto che il suo autore non sia una colonna portante consolidata di qualche giornalone grida vendetta.
Mah… Se scrivessi per un giornalone in questo momento quasi certamente mi toccherebbe commentare Sanremo. Anche no.
Probabile, ma il mio era un discorso generale sulla fantomatica meritocrazia, convitato di pietra di ogni discorso pubblico in Italia, giornalismo incluso. Poi, vabbè, Sanremo chiude ogni discussione. Chettedevodì?